XI-XII: Misto/NI XIII: Misto/NI (fino al 24/03/1998; dal 18/02/1999 al 13/12/1999; dal 26/10/2000) - UDR (dal 25/03/1998 al 17/02/1999) - Misto/Centro Riformatore (dal 14/12/1999 al 25/10/2000) XIV: - Misto/NI (fino al 05/11/2003) - Per le Autonomie (dal 06/11/2003) XV: Misto/NI XVI: UdC, SVP e Aut
Francesco Cossiga nacque a Sassari il 26 luglio 1928[5] da una famiglia medio-borghese[6] repubblicana e antifascista originaria di Siligo. I genitori sono Giuseppe Cossiga e Maria Zanfarino, detta “Mariuccia”. Era cugino di secondo grado di Enrico e Giovanni Berlinguer (la cui madre Maria "Mariuccia" Loriga era cugina di Maria Zanfarino poiché i rispettivi padri Giovanni Loriga e Antonio Zanfarino, condividendo la stessa madre, erano fratellastri)[7]. Nonostante egli fosse comunemente chiamato «Cossìga», la pronuncia originaria del cognome è «Còssiga». Si tratta d'un casato sardo di nobiltà di toga che a suo dire aveva esponenti collegati a una loggia massonica locale[8]. Còssiga in sassarese significa Corsica e indica la probabile provenienza della famiglia.[9]
Iscritto alla sezione sassarese della Democrazia Cristiana a 17 anni, negli anni universitari ha fatto parte della FUCI con ruoli di primo piano nella FUCI di Sassari e a livello nazionale[13].
Per quanto riguarda il periodo della guerra fredda, Cossiga si autodenunciò come referente politico dell'organizzazione Gladio, sezione italiana della rete Stay-behind, organizzazione segreta dell'Alleanza Atlantica (di cui facevano parte anche Stati neutrali come Austria e Svezia)[14] e come frequentatore della sua base di capo Marrargiu, quando il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti fu indotto a rivelare l'esistenza dell'organizzazione segreta (1990). Rivendicò di aver nascosto da giovane – come molti altri dirigenti democristiani degli anni cinquanta – «mitragliatrici e bombe a mano» per il caso in cui il PCI avesse tentato la presa del potere (l'episodio fu dettagliato ulteriormente, in un'intervista a Paolo Guzzanti a mandato presidenziale concluso, quando rivelò che «alla vigilia delle elezioni del 1948 ero armato fino ai denti. Mi armò Antonio Segni. Non ero solo, eravamo un gruppo di democristiani riforniti di bombe a mano dai carabinieri. La notte del 18 aprile la passai nella sede del comitato provinciale della DC di Sassari... Prefettura, poste, telefoni, acquedotto, gas non dovevano cadere, in caso di golpe rosso, nelle mani dei comunisti»)[15].
Al Ministro Paolo Emilio Taviani, in una lettera al suo successore alla Difesa Parisi, Cossiga ascrisse la sua «iniziazione» alle operazioni sotto copertura della guerra fredda: «Quando i membri del Governo italiano Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani autorizzarono la firma del protocollo segreto di adesione all'Organizzazione Alleata Stay Behind Nets, furono acquistati per piccoli lotti, intestati, a prestanome, per lo più mogli o figli di ufficiali delle Forze Armate italiane, i terreni sui quali, con il largo contributo della CIA americana e del Secret Intelligence Service di Sua Maestà Britannica, fu costruita la base di Poglina. In essa io appresi l'uso delle armi automatiche e del plastico»[15]. Della sua iniziale carriera politica, egli intese dimostrare (quasi pedagogicamente) agli italiani i costi che, in termini di legalità, aveva comportato il contenimento del PCI all'opposizione.
A sorpresa nel 1956 fu eletto segretario provinciale della DC sassarese, allora dominata da Antonio Segni.
Alla fine degli anni cinquanta, non ancora trentenne, iniziò la sua folgorante carriera politica a capo dei cosiddetti giovani turchi sassaresi: eletto deputato per la prima volta il 25 maggio 1958 nella circoscrizione di Cagliari, Sassari e Nuoro nella lista DC, partecipò ai lavori della VI commissione (finanze e tesoro); fu inoltre membro della VII commissione (difesa) e della Giunta per il Regolamento. Fu riconfermato nel 1963.
Nel 1966, quando entrò per la prima volta al governo, Cossiga ricevette la delega, come Sottosegretario alla Difesa, a sovrintendere su Gladio, di cui aveva fatto parte. In questa veste, l'anno successivo, presiedette all'apposizione degli omissis sul rapporto Manes, una relazione sull'operato del servizio segreto militare oggetto di esame da parte della commissione ministeriale di inchiesta sul Piano Solo, che la Commissione parlamentare sul SIFAR ricevette dal Governo pesantemente censurata «per esigenze di segreto militare»[16].
Il Piano Solo era stato un tentativo di colpo di Stato ideato dal capo dell'Arma dei Carabinieri, il generale Giovanni de Lorenzo, durante la crisi del primo governo Moro (estate 1964), che prevedeva il prelievo e il trasferimento di 731 uomini politici e sindacalisti di sinistra proprio nella base di Capo Marrargiu[17]. Secondo Lino Jannuzzi, che con Eugenio Scalfari aveva condotto una campagna contro il generale De Lorenzo, Cossiga stesso gli avrebbe rivelato il suo ruolo nella depurazione del testo di Manes[18].
Rieletto a Montecitorio nel 1968 Cossiga fu ancora sottosegretario alla difesa nei governi Leone e Rumor, fino al 27 marzo 1970.
L'11 marzo 1977, nel corso di durissimi scontri tra studenti e forze dell'ordine nella zona universitaria di Bologna venne ucciso il militante di Lotta ContinuaPierfrancesco Lorusso; alle successive proteste degli studenti, Cossiga, allora titolare del Ministero dell'interno, rispose mandando veicoli trasporto truppe blindati (M113) nella zona universitaria[19]. Il giorno dopo i fatti di Bologna fu ucciso a Torino il brigadiere Giuseppe Ciotta, mentre il 22 marzo, a Roma, l'agente Claudio Graziosi fu freddato nel momento in cui tentava di arrestare la terrorista Maria Pia Vianale: nello scambio di colpi d'arma da fuoco tra i compagni di Graziosi e l'assassino morì anche una guardia zoofila, Angelo Cerrai[14]. Il mese successivo un poliziotto che sorvegliava un corteo fu ucciso, e tre suoi colleghi rimasero feriti[14].
A seguito di ciò, visto il clima di violenza e i toni sempre più accesi, in particolare dei soggetti appartenenti all'area extraparlamentare, Francesco Cossiga diede disposizioni per vietare in tutto il Lazio, fino al successivo 31 maggio, tutte le manifestazioni pubbliche, spiegando che non voleva permettere «che i figli della borghesia romana uccidessero i figli dei contadini del Sud»[14]. Nonostante il divieto, grandi gruppi di militanti diedero comunque il via a manifestazioni di protesta. Il 12 maggio a Roma, nei pressi del Ponte Garibaldi, durante una manifestazione radicale, perse la vita per colpi d'arma da fuoco la studentessa liceale Giorgiana Masi, figlia di un parrucchiere e di una casalinga romani[14].
Nonostante l'autore dell'omicidio sia rimasto ignoto, Marco Pannella e i radicali sostennero a più riprese la tesi di una responsabilità morale di Cossiga, chiedendo anche l'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sull'accaduto[20]. Dal canto suo, Cossiga ha sempre respinto la tesi di una sua responsabilità morale, attribuendola invece allo stesso Pannella, avendo questi deciso di effettuare il sit-in pur avvertito dell'altissima probabilità di scontri armati e del conseguente rischio per i militanti radicali e i simpatizzanti della manifestazione[21].
Successivamente Cossiga ammise che, la sera della manifestazione in cui si ebbe la morte di Giorgiana Masi, fossero presenti agenti provocatori armati della polizia, ma a sua insaputa: per tale motivo avrebbe subito provveduto alla sostituzione del questore di Roma che lo aveva tenuto all'oscuro[22]. Purtuttavia, negò sempre che fossero stati i militari impegnati ad aprire il fuoco sui manifestanti: «Il reparto dei carabinieri che si trovava dall'altra parte del ponte, subito accusato di aver aperto il fuoco, per ordine dell'autorità giudiziaria fu disarmato da elementi della Squadra Mobile: alla perizia, risultò che nessun colpo era stato sparato»[21].
Riguardo al comportamento tenuto durante gli anni di piombo, ma non solo, Cossiga divenne noto nei decenni successivi per alcuni ripensamenti e autocritiche, fino ad approdare a posizioni garantiste (estese ad altri ambiti dopo i fatti di Mani pulite) e persino a riconoscere lo status di legittimi nemici politici e «sovversivi di sinistra», al posto di quello di criminali comuni, ai terroristi rossi stessi, come affermato in una lettera inviata all'ex brigatista Paolo Persichetti nel 2002 e poi pubblicata[23]. Della stessa intonazione una lettera inviata a un avvocato francese, divenuta nota perché allegata nella decisione di non estradizione di Cesare Battisti dal Brasile (2009)[24].
A partire dagli anni novanta si fece promotore di un'amnistia politica per i reati compiuti in quegli anni[25]. Famosa sarà la sua amicizia con Toni Negri, ex leader di Potere Operaio e di Autonomia Operaia, latitante in Francia e che Cossiga andò poi a trovare in carcere[26].
La figlia Anna Maria ha ricordato come, a un certo punto, abbia anche ricevuto in casa Francesca Mambro e Giusva Fioravanti, terroristi dei N.A.R. che, pur condannati per la strage di Bologna, riteneva innocenti, e un'altra volta la brigatista rossa Adriana Faranda, spiegando l'invito con la necessità che lo Stato dovesse "fare pace con i terroristi sconfitti”.[27]
In un'intervista del 2008, Cossiga rivendicò di aver fatto fronte ai moti di protesta degli anni di piombo ricorrendo a metodi apertamente illegali[28].
Nel gennaio 1978 Cossiga contribuì alla riforma del servizio segreto militare, che fu sdoppiato con la creazione di quello civile, il Sisde, dando la configurazione che l'intelligence avrebbe mantenuto fino alla successiva riforma del 2007. Sostenne inoltre nell'ottobre 1977 la creazione di appositi reparti speciali antiterrorismo, le "UN.I.S." (Unità di intervento speciale), nella polizia (NOCS) e nei carabinieri (GIS).
Terrorismo e il caso Moro
Nel marzo 1978, quando fu rapito Aldo Moro dalle Brigate Rosse, creò rapidamente due comitati di crisi, uno ufficiale e uno ristretto, per la soluzione della crisi.
Molti fra i componenti di entrambi i comitati sarebbero in seguito risultati iscritti alla P2: ne faceva parte lo stesso Licio Gelli sotto il falso nome di ingegner Luciani. Tra i membri anche lo psichiatra e criminologo Franco Ferracuti. Cossiga richiese e ottenne l'intervento di uno specialista statunitense, il professor Steve Pieczenik, il quale partecipò ad una parte dei lavori. Stando a quanto raccontato da Cossiga e dallo stesso Pieczenik, inizialmente l'idea dello statunitense era quella di inscenare una finta apertura alla trattativa, per ottenere più tempo e cercare di far uscire allo scoperto i brigatisti, in modo da poterli individuare[29].
In alcune interviste rilasciate successivamente a questi fatti, Pieczenik affermò che durante i giorni del sequestro vi erano notevoli falle che permettevano di far giungere informazioni riservate al di fuori delle discussioni dei comitati e che non aveva l'impressione che la classe politica fosse vicina a Moro:
«Ci fu una cosa che emerse in maniera chiarissima, e che mi sbalordì. Io non conoscevo l'uomo Aldo Moro, dunque desideravo farmi un'idea di che persona fosse e di quanta resistenza avesse. Ci ritrovammo in questa sala piena di generali e di uomini politici, tutta gente che lo conosceva bene, e... ecco, alla fine ebbi la netta sensazione che a nessuno di loro Moro stesse simpatico o andasse a genio come persona, Cossiga compreso. Era lampante che non stavo parlando con i suoi alleati. [...] Dopo un po' mi resi conto che quanto avveniva nella sala riunioni filtrava all'esterno. Lo sapevo perché ci fu chi – persino le BR – rilasciava dichiarazioni che potevano avere origine soltanto dall'interno del nostro gruppo. C'era una falla, e di entità gravissima. Un giorno lo dissi a Cossiga, senza mezzi termini. "C'è un'infiltrazione dall'alto, da molto in alto". "Sì" rispose lui "lo so. Da molto in alto". Ma da quanto in alto non lo sapeva, o forse non lo voleva dire. Così decisi di restringere il numero dei partecipanti alle riunioni, ma la falla continuava ad allargarsi, tanto che alla fine ci ritrovammo solo in due. Cossiga e io, ma la falla non accennò a richiudersi.»
(I giorni del complotto, articolo del giornalista Robert Katz, pubblicato su Panorama del 13 agosto 1994[30].)
Cossiga in seguito non smentì, ma parlò di «cattivo gusto».
Nel 2006, 28 anni dopo i fatti, il giornalista Emmanuel Amara entrò in contatto con Pieczenik, che accettò di farsi intervistare. Il contenuto di questa intervista è stato poi inserito nel saggio Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall'ombra[31][32]. Nell'intervista riportata nel libro stesso riassume quello che sarebbe stato il suo compito durante il rapimento Moro:
«Capii subito quali erano le volontà degli attori in campo: la destra voleva la morte di Aldo Moro, le Brigate rosse lo volevano vivo, mentre il Partito Comunista, data la sua posizione di fermezza politica, non desiderava trattare. Francesco Cossiga, da parte sua, lo voleva sano e salvo, ma molte forze all'interno del paese avevano programmi nettamente diversi, il che creava un disturbo, un'interferenza molto forte nelle decisioni prese ai massimi vertici. [...] Il mio primo obiettivo era guadagnare tempo, cercare di mantenere in vita Moro il più a lungo possibile. Il tempo, necessario a Cossiga per riprendere il controllo dei suoi servizi di sicurezza, calmare i militari, imporre la fermezza in una classe politica inquieta e ridare un po' di fiducia all'economia. Bisognava fare attenzione sia a sinistra sia a destra: bisognava evitare che i comunisti di Berlinguer entrassero nel governo e, contemporaneamente, porre fine alla capacità di nuocere delle forze reazionarie e antidemocratiche di destra.
Allo stesso tempo era auspicabile che la famiglia Moro non avviasse una trattativa parallela, scongiurando il rischio che Moro venisse liberato prima del dovuto. Ma mi resi conto che, portando la mia strategia alle sue estreme conseguenze, mantenendo cioè Moro in vita il più a lungo possibile, questa volta forse avrei dovuto sacrificare l'ostaggio per la stabilità dell'Italia.»
(Emmanuel Amara, Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall'ombra, Roma, Cooper, pp. 102-103.)
Da parte del Governo Andreotti, non fu mai aperta alcuna trattativa ufficiale con i sequestratori per il rilascio di Moro, il quale dalla sua prigionia scelse di scrivere a Cossiga due volte, tra il 29 marzo e il 5 aprile 1978: la prima lettera fu recapitata e la seconda non lo fu (Moro, 2008, pp. 7–9, 28-30; Siate indipendenti…, 2013, lettera n. 1). Nella prima lettera si rivolse al ministro dell’Interno con parole chiare: «Caro Francesco […] ti scrivo in modo riservato, perché tu e gli amici con alla testa il Presidente del consiglio (informato ovviamente il Presidente della Repubblica) possiate riflettere opportunamente sul da farsi, per evitare guai peggiori. Pensare dunque sino in fondo, prima che si crei una situazione emotiva e irrazionale». Nella seconda missiva Moro, inconsapevole che la precedente lettera era stata resa nota non da Cossiga ma dai suoi carcerieri, sceglieva un esordio più distaccato e preoccupato: «Caro Cossiga, torno su un argomento già noto e che voi mi avete implicitamente ed esplicitamente respinto. Eppure esso politicamente esiste e sarebbe grave errore ritenere che, essendo esso pesante e difficile, si possa fare come se non esistesse…Vorrei pregarti che, almeno su quel che ti ho scritto, vi fosse, a differenza delle altre volte, riservatezza. Perché fare pubblicità su tutto?».
Nei 55 giorni della prigionia di Aldo Moro, Cossiga mise in discussione l’autenticità delle comunicazioni del prigioniero fino all’uso dell’espressione «lettere non moralmente autentiche»: si trattava della strategia di ‘svalutazione’ dell’ostaggio tesa a indebolire i carcerieri.
Cossiga diede le dimissioni da Ministro dell'Interno l'11 maggio 1978, in seguito al ritrovamento del cadavere del presidente della DC in via Caetani. Al giornalista Paolo Guzzanti disse: «Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle [a causa della vitiligine] è per questo. Perché mentre lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Moro».
La sua attività politica all'indomani delle dimissioni da ministro tuttavia non si concluse. Dopo le elezioni del 3 giugno 1979 fu eletto presidente della Commissione affari esteri della Camera dei deputati. E il 4 agosto 1979, fu nominato presidente del Consiglio dei ministri, dimettendosi di conseguenza dalla presidenza della commissione parlamentare. Rimase in carica fino all'ottobre del 1980. Durante il suo mandato fu Presidente del Consiglio europeo per il semestre iniziato il 1º gennaio 1980.
Nel corso dei due brevi (otto e sei mesi) esecutivi guidati da Francesco Cossiga, il Parlamento approvò la legge che, nel 1983, avrebbe consentito al primo governo Craxi di installare gli euromissili a Comiso. Fu la più importante azione di politica estera del presidente Cossiga, decisione che anticipò, in qualche maniera, il sodalizio tra l'Italia e la Germania Ovest guidata da Helmut Schmidt[36].
In veste di Presidente del Consiglio, Cossiga fu proposto dal PCI per la messa in stato di accusa da parte del Parlamento, in votazione in seduta comune, con una procedura conclusasi nel 1980 con l'archiviazione. L'accusa era di favoreggiamento personale e rivelazione di segreto d'ufficio. Fu sospettato di aver rivelato a un compagno di partito, il senatore Carlo Donat-Cattin, che suo figlio Marco era indagato e prossimo all'arresto, essendo coinvolto in episodi di terrorismo come esponente di Prima Linea, suggerendone l'espatrio.
Il Parlamento in seduta comune rigettò però l'accusa, che era stata fatta procedere da parte della magistratura di Torino in seguito alle dichiarazioni del terrorista pentito Roberto Sandalo[37] (Sandalo, soprannominato il «piellino canterino» perché fu uno dei primi pentiti dell'organizzazione terroristica Prima Linea, aveva infatti riferito che in una conversazione con Marco Donat-Cattin quest'ultimo gli avrebbe parlato dell'imminenza del suo arresto, appresa da fonti vicine al padre)[37]. Donat-Cattin smentì le rivelazioni, raccontando che non sentiva il figlio da anni, ammettendo tuttavia di avere chiesto a Cossiga se si sapesse qualcosa di Marco, e di aver ricevuto risposta negativa. Ammise anche di avere contattato Roberto Sandalo, ma esclusivamente per riferirgli che non c'erano notizie del figlio[37]. Successivamente Cossiga fu scagionato dall'accusa di favoreggiamento dal Parlamento in seduta comune che votò, a maggioranza, l'archiviazione con 507 voti favorevoli e 406 contrari[37].
Nel denunciare il favoreggiamento personale, il PCI guidato da Enrico Berlinguer fu assai deciso nel ritenere che Cossiga fosse la fonte della fuga di notizie sulle indagini. Vent'anni dopo i fatti e con il reato ormai caduto in prescrizione, Cossiga ammise parte dell'addebito, sostenendo di aver informato lui stesso del fatto il cugino Berlinguer, attendendosi comprensione e non sospettando che la notizia venisse utilizzata per una battaglia politica contro di lui[38]. Cossiga confermò la sua versione in un'intervista del 7 settembre 2007 ad Aldo Cazzullo del Corriere della Sera[39][40].
Francesco Cossiga era Presidente del Consiglio il 27 giugno 1980, data dell'incidente al DC-9 dell'ITAVIA che dette luogo alla cosiddetta Strage di Ustica. Nonostante che all'epoca avesse taciuto, nel febbraio 2007 dichiarò che, secondo le informazioni fornitegli dai servizi segreti italiani, ad abbattere l'aereo sarebbe stato un missile «a risonanza e non a impatto», destinato a un velivolo libico su cui a sua detta si sarebbe trovato Gheddafi[41], lanciato da un velivolo decollato dalla portaerei francese Clemenceau[41]. A seguito delle nuove dichiarazioni rilasciate da Cossiga, la procura di Roma, a ventotto anni dalla strage, decise di riaprire l'inchiesta.
Presidente del Senato
Per un periodo Cossiga non ricoprì alcun incarico governativo né di partito, pur continuando il suo impegno di deputato. Quelli che Cossiga stesso ha definito come i suoi nemici all'interno della Democrazia Cristiana misero in giro la voce – avvalorata da un finto rapporto degli agenti segreti della sua scorta – che una sua visita in Romania, ospite di Nicolae Ceaușescu, sarebbe stata motivata da una cura con l'elettroshock in una clinica di quel Paese:[senza fonte] Cossiga ha narrato tale episodio nel corso della puntata del 14 dicembre 2007 della trasmissione Otto e mezzo, intervistato da Giuliano Ferrara: nel corso della medesima trasmissione Cossiga ha comunque riferito che in altre epoche (compresa quella finale alla Presidenza della Repubblica) ha sofferto di crisi depressive. Successivamente, nel 1983 fu eletto al Senato nel collegio Tempio-Ozieri e, 12 luglio 1983, presidente del Senato.
Il 3 luglio dello stesso anno fu eletto quindi come ottavo presidente della Repubblica Italiana. Per la prima volta, in tutta la storia dell'Italia repubblicana, l'elezione avvenne al primo scrutinio[43], con una larga maggioranza (752 su 977 votanti)[37]: Cossiga ricevette il consenso, oltre che della DC, anche di PSI, PCI, PRI, PLI, PSDI e Sinistra Indipendente, prestando giuramento il 3 luglio.
All'età di quasi 57 anni, Cossiga è stato il più giovane presidente della Repubblica Italiana ad essere eletto.[44]
Primi cinque anni
La presidenza Cossiga fu sostanzialmente distinta in due fasi riferite agli atteggiamenti assunti dal capo dello Stato. Nei primi cinque anni Cossiga svolse il suo ruolo in maniera tradizionale, preoccupandosi di esercitare la funzione di perno delle istituzioni repubblicane previsto dalla Costituzione, che fa del presidente della Repubblica una sorta di arbitro nei rapporti tra i poteri dello Stato. Ebbe modo anche di stimolare una migliore comprensione e configurazione di alcune funzioni presidenziali suscettibili di ambiguità interpretative, come il ruolo del Capo dello Stato nel caso di conferimento dei poteri di guerra al Governo (da cui derivò la nomina della Commissione Paladin)[45][46] e il potere di scioglimento delle Camere nel caso in cui il cosiddetto «semestre bianco», cioè quello conclusivo del mandato, coincida con la fine della legislatura, questione che indusse il Parlamento ad apportare un'apposita modifica all'articolo 88 comma II della Costituzione.
Esternazioni e «picconate» al sistema
La caduta del Muro di Berlino segnò l'inizio della seconda fase. Secondo Cossiga, la fine della guerra fredda e della contrapposizione dei due blocchi avrebbe determinato un profondo mutamento del sistema politico italiano, che nasceva da quella contrapposizione ed era a quella funzionale. La DC e il PCI avrebbero dunque subito gravi conseguenze da questo mutamento, ma Cossiga sosteneva che i partiti politici e le stesse istituzioni si rifiutavano di riconoscerlo. Iniziò quindi una fase di conflitto e di polemica politica al solo scopo di dare delle «picconate a questo sistema»[47].
Risale a quest'epoca l'abbandono, da parte sua, di uno dei più antichi tabù della politica democristiana, cioè quello che esorcizzava l'esistenza di illeciti: conformemente alla formazione tavianea, ma anche a quella che, per Antonio Maccanico, era una sua «fanciullesca» mania "della segretezza, dello spionaggio, delle bandiere e militaria"[48]. Per converso, la caduta del Muro di Berlino – da lui percepita come svolta epocale prima di molti altri politici italiani (in merito a questo Luciano Violante disse che «nessuno lo seguì e i partiti crollarono, come aveva previsto»)[49], tanto da essere stato l'unico politico romano a presenziare alla prima seduta del Bundestag dopo la riunificazione nel 1990 – fu per lui la vera giustificazione della riduzione dei margini di tolleranza dell'alleato nordamericano verso la classe politica italiana della Prima Repubblica: si tratta di una tolleranza che lui percepì scemare quando la CIA interferì pesantemente (e infruttuosamente) nelle vicende politiche delle massime istituzioni italiane, nel 1989, tentando di impedire l'ascesa di Giulio Andreotti a Palazzo Chigi, probabilmente a causa della sua politica filoaraba[50].
Gli ultimi anni della presidenza furono caratterizzati - oltre che dal massimo atto formale consentitogli dalla Costituzione, il messaggio alle Camere, inviato il 26 giugno 1991 e giudicato "il documento più coerente del suo pensiero"[51][52] - da una serie di esternazioni sarcastiche e volutamente provocatorie nei confronti di alcune personalità politiche: definì Ciriaco De Mita «bugiardo, gradasso, il solito boss di provincia»[37]; Nicola Mancino uno che «se sta al mare fa un gran bene al Paese»[37]; Paolo Cirino Pomicino «un analfabeta»[37]; Michele Zolla «un analfabeta di ritorno»[37]; Antonio Gava un personaggio su cui «non infierirò mai chiamandolo camorrista o amico di camorristi come per anni hanno fatto i comunisti»[37]; Leoluca Orlando «un povero ragazzo, uno sbandato, che danneggia l'unità della lotta alla mafia, mal consigliato da un prete fanatico che crede di vivere nel Paraguay del '600»;[37][53]Achille Occhetto «uno zombie con i baffi»[37]; Stefano Rodotà un «piccolo arrampicatore sociale, uomo senza radici, parvenu della politica»[37]; Luciano Violante «un piccolo Viscinski»[37]; Giorgio La Malfa «figlio impudente e imprudente d'un galantuomo»;[37][54]Claudio Martelli «un ragazzino»[37]; Enrico Dalfino (sindaco di Bari) un «irresponsabile e cretino»[37].
Tentando di smuovere un sistema che percepiva bloccato, abbandonò ogni formalismo, come in occasione del tradizionale discorso di fine anno del 1991, da lui quasi disertato, che fu il più breve della storia della Repubblica:
«Parlare non dicendo, tacendo anzi quello che tacere non si dovrebbe, non sarebbe conforme alla mia dignità di uomo libero, al mio costume di schiettezza, ai miei doveri nei confronti della Nazione. E questo proprio ormai alla fine del mio mandato che appunto va a scadere il prossimo 3 luglio 1992. Questo comportamento mi farebbe violare il comandamento che mi sono dato, per esempio di un grande santo e uomo di Stato, e al quale ho cercato di rimanere umilmente fedele: privilegiare sempre la propria retta coscienza, essere buon servitore della legge, e anche quindi della tradizione, ma soprattutto di Dio, cioè della verità. E allora mi sembra meglio tacere.»
(Francesco Cossiga, dal discorso di fine anno del 31 dicembre 1991[55][56].)
Denunciava inoltre un'eccessiva politicizzazione della magistratura e stigmatizzava il fatto che giovani magistrati, appena entrati in servizio, fossero da subito destinati alle procure siciliane per svolgere processi di mafia: «Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre un'indagine complessa come può essere un'indagine sulla mafia o sul traffico della droga. Questa è un'autentica sciocchezza»[57].
Qualche commentatore ritenne che quella frase si riferisse a Rosario Livatino, magistrato vittima della mafia, ma anni dopo, con una lettera ai genitori del giudice, Cossiga smentì quest'interpretazione[58].
Per il suo mutato atteggiamento, Cossiga ricevette varie critiche e prese di distanza da parte di quasi tutti i partiti, ad eccezione del MSI, che si schierò a favore delle «picconate». Egli, tra l'altro, sarà ritenuto uno dei primi «sdoganatori» del MSI, al quale rivolse le scuse a nome dello Stato italiano per le accuse che erano state espresse nei suoi confronti all'indomani della strage di Bologna nel 1980[59].
Molte critiche furono da lui espresse, anche in anni seguenti in cui mantenne lo stile del «picconatore», contro il comportamento del pool di Mani pulite, in particolare contro Antonio Di Pietro[60], che precedentemente aveva elogiato[61]. Non solo singoli giudici, ma anche la magistratura nel suo insieme venne attaccata da Cossiga[62], affermando nel 2008 che «i primi mafiosi stanno al CSM» e che «sono loro che hanno ammazzato Giovanni Falcone negandogli la DNA e prima sottoponendolo a un interrogatorio. Quel giorno lui uscì dal CSM e venne da me piangendo. Voleva andar via. Ero stato io a imporre a Claudio Martelli di prenderlo al Ministero della giustizia»[63].
Cossiga e Gladio
Le asserite responsabilità di Cossiga nei confronti di Gladio furono confermate dal medesimo interessato che, ancora presidente, ammise con fierezza, in un'esternazione a Edimburgo nel 1990, la parte avuta nella sua messa a punto, in quanto sottosegretario al Ministero della Difesa tra il 1966 e il 1969[37] e si autodenunciò con un documento inviato alla Procura di Roma, in seguito alla denuncia dell'ammiraglio Martini e del generale Inzerilli come responsabili di Gladio. Nel documento dichiarò: «Rivendico in pieno la tutela di quarant'anni di politica della Difesa e della sicurezza per la salvaguardia dell'integrità nazionale, dell'indipendenza e della sovranità territoriale del nostro Paese nonché della libertà delle sue istituzioni, anche al fine di rendere giustizia a coloro che agli ordini del governo legittimo hanno operato per la difesa della Patria.»[37]. Cossiga ascrisse inoltre alla sua grafia gli omissis con cui fu censurato al Ministero della Difesa (all'epoca del suo sottosegretariato, negli anni sessanta) il rapporto Manes con cui si descrivevano le attività paragolpiste del piano Solo.
Sono differenti le versioni sui motivi che indussero il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti a divulgare la struttura segreta di Gladio:
Paolo Guzzanti, nel suo libro Cossiga uomo solo (Rizzoli, 1991) dedica un capitolo (La fiaba del giudice, del gatto e del primo ministro) alla chiave interpretativa di fonte cossighiana: la richiesta del giudice che indagava sulla strage di Peteano, Felice Casson, di accedere agli archivi del SISMI a Forte Braschi, sarebbe stata inopinatamente accolta dal Presidente del Consiglio Giulio Andreotti per dare luogo ad un regolamento di conti con il Capo dello Stato, da poco esternatore assai sgradito alla maggioranza DC.
Lo stesso Cossiga, in una sua autobiografia, La versione di K (Rizzoli, 2009), scrive, riferendosi ad Andreotti: «Mi ha risposto che, ormai caduto il Muro di Berlino, non vi era più alcuna ragione per non raccontare come stavano davvero le cose. Tanto più, aggiunse, che aveva concesso al pm veneziano Felice Casson [...] il permesso di andare a vedere negli archivi dei Servizi Segreti: a quel punto c'era poco da sperare che non avrebbe ricostruito tutto» (p. 158).
Nei mesi successivi si scatenarono continue polemiche: Achille Occhetto (segretario comunista) tuonò contro la «democrazia limitata» che sarebbe esistita in Italia durante il dopoguerra e contro l'«eversione atlantica», a suo dire ben più pericolosa dell'Armata Rossa e della Gladio rossa, mentre lo stesso Cossiga minacciò di autosospendersi purché lo facesse anche Andreotti[37].
Successivamente Casson trasmise il fascicolo sull'organizzazione, per ragioni di competenza territoriale, alla Procura di Roma, la quale dichiarò che la struttura Stay-behind non aveva nulla di penalmente rilevante[64].
Vi sono state differenti valutazioni politiche sul suo coinvolgimento nella vicenda di Gladio.
Mentre Cossiga ha dichiarato che sarebbe giusto riconoscere il valore storico dei «gladiatori» così come era avvenuto per i partigiani, il presidente della Commissione stragi Giovanni Pellegrino ebbe a scrivere: «Se in sede giudiziaria un'illiceità penale della rete clandestina in sé considerata è stata motivatamente e fondatamente negata, non sono state affatto escluse possibili distorsioni dalle finalità istituzionali dichiarate della struttura, che ben possono essere andate al di là della sua già evidenziata utilizzazione a fini informativi...».
Richiesta di messa in stato di accusa
Il 6 dicembre 1991 fu presentata in parlamento da parte dell'allora minoranza la richiesta di messa in stato di accusa per Francesco Cossiga, con diversi capi d'accusa. Le accuse erano 29, tra queste:
a) l'espressione di pesanti giudizi sull'operato della commissione di inchiesta sul terrorismo e le stragi;
b) la lettera del 7 novembre 1990 con la minaccia di «sospendersi» e di sospendere il governo onde bloccare la decisione governativa riguardante il comitato sulla organizzazione Gladio;
c) le continue dichiarazioni circa la legittimità della struttura denominata organizzazione Gladio benché fossero in corso indagini giudiziarie e parlamentari;
d) la minaccia del ricorso alle forze dell'ordine per far cessare un'eventuale riunione del Consiglio superiore della magistratura, nonché del suo scioglimento in caso di inosservanza del divieto di discutere di certi argomenti;
e) i giudizi sulla Loggia massonica P2, nonostante la legge di scioglimento del 1982 e le conclusioni della commissione parlamentare d'inchiesta;
f) la pressione sul governo affinché non rispondesse alle interpellanze, presentate alla Camera nel maggio 1991 da esponenti del PDS;
g) l'invito ad allontanare il ministro Rino Formica dopo le sue dichiarazioni sulla organizzazione Gladio;
h) la rivendicazione di un potere esclusivo di scioglimento delle Camere e la sua continua minaccia;
i) la minaccia di far uso dei dossier e la convocazione al Quirinale dei vertici dei servizi segreti;
l) il ricorso continuo alla denigrazione, onde condizionare il comportamento delle persone offese e prevenire possibili critiche politiche.
Il comitato parlamentare ritenne tutte le accuse manifestamente infondate (tra cui venne aggiunta quella di aver abusato della propria carica quando propose unilateralmente la grazia per il fondatore delle BR Renato Curcio), come si legge negli atti parlamentari del 12 maggio 1993. La Procura di Roma richiese l'archiviazione a favore di Cossiga il 3 febbraio 1992 e l'8 luglio 1994 la richiesta fu accolta dal Tribunale dei ministri.
Cossiga scrisse:
«Il Partito Comunista sapeva dell'esistenza di un'organizzazione segreta con le caratteristiche di Gladio. Lo dico perché ne fui informato da Emilio Taviani. [...] Perché i comunisti lanciarono comunque quella campagna e perché inserirono i fatti di Gladio tra le accuse che portarono alla richiesta di incriminazione nei miei confronti? Credo di avere la risposta. Quello dei comunisti fu fuoco di controbatteria: era da poco crollato il Muro di Berlino e temevano che potessero arrivare da quella parte notizie di chissà che genere sul loro conto; quindi, per evitare di trovarsi in imbarazzo, cominciarono a sparare nel mucchio. E io, [...] fui colpito per primo in quanto presidente della Repubblica.»
(Francesco Cossiga, La versione di K, p. 159.)
Dopo le dimissioni di Cossiga, il PDS fece tranquillamente sapere che, se anche quelle accuse fossero state provate, non era più il caso di occuparsene dal momento che Cossiga non era più presidente della Repubblica, essendosi esaurito il suo settennato[37].
Dimissioni
A seguito delle elezioni del 5 aprile, prendendo atto della sconfitta del sistema consociativo fondato sul pentapartito che pure egli aveva sostenuto al fine di «combattere il degrado economico e il terrorismo», deciso a dare un colpo all'immobilismo e alla debolezza dei governi sottoposti alle «estenuanti liturgie e alchimie partitiche», Cossiga si dimise dalla presidenza della Repubblica il 28 aprile 1992, a due mesi dalla scadenza naturale del mandato, annunciando le sue dimissioni con un discorso televisivo che tenne simbolicamente il 25 aprile, alla fine del quale giunse a commuoversi[65]:
«C'è chi approverà il mio gesto, c'è chi questo gesto non lo approverà; spero che tutti lo consideriate un gesto onesto di servizio alla Repubblica. [...] Ai giovani io voglio dire però... di amare la Patria, di onorare la Nazione, di servire la Repubblica, di credere nella libertà e di credere nel nostro Paese[66].»
(Francesco Cossiga, dal discorso del 25 aprile 1992)
Pochi mesi prima, a gennaio, Cossiga aveva già lasciato la Democrazia Cristiana, suo partito di provenienza, scrivendo una lettera al quotidiano Il Popolo[37].
Senatore a vita: XI e XII legislatura
Come preannunciato, Cossiga abbandonò la DC e si iscrisse al gruppo misto del Senato, partecipando ai lavori parlamentari e concedendo il proprio voto di fiducia ai governi Amato, Ciampi, Berlusconi e Dini.
XIII legislatura
Anche nella legislatura iniziata nel 1996 Cossiga decise in un primo momento di rimanere defilato, pur contribuendo col suo voto alla fiducia al primo governo Prodi. Successivamente, nel febbraio del 1998, diede vita ad una nuova formazione politica, l'Unione Democratica per la Repubblica (UDR), con l'intenzione di costituire un'alternativa di centro e ricompattare le forze ex-democristiane.
Quando Rifondazione Comunista fece mancare il suo appoggio al governo Prodi I, che venne battuto alla Camera per un voto, Cossiga fu determinante per la formazione del governo D'Alema I. Il suo appoggio venne deciso, come Cossiga spiegò in una conferenza stampa all'uscita dalle consultazioni con il Presidente Scalfaro, per sancire irrevocabilmente la fine della conventio ad excludendum nei confronti del PCI. Massimo D'Alema fu il primo Presidente del Consiglio a provenire dalle file dell'ex PCI. Per l'occasione Cossiga regalò al novello Capo del Governo in Parlamento un bambino di zucchero, ironizzando un desueto luogo comune su usanze cannibalistiche dei comunisti[67]. Nel frattempo il senatore dell'opposizione Marcello Pera (Forza Italia) ricordava polemicamente le origini di Cossiga in Barbagia, luogo dove vivevano i latitanti rapitori dell'Anonima sequestri, definendolo «barbaricino ladro di voti», a cui Cossiga rispondeva ricordando le proprie origini familiari, «contrariamente a chi ha un cognome di cosa, come si usava dare alle famiglie la cui origine era ignota»[33]. L'UDR entrò anche a far parte del governo D'Alema I con Carlo Scognamiglio, nominato Ministro della Difesa.
Sempre nel 1998, Cossiga fu chiamato a testimoniare nel processo che a Palermo vedeva Giulio Andreotti imputato per associazione mafiosa. Cossiga difese l'ex Presidente del Consiglio[27], da lui descritto come «assatanato nella lotta alla mafia»[68]. Al termine del lungo iter giudiziario fu accertata la connivenza di Andreotti con la mafia per fatti anteriori al 1980. Il senatore fu assolto per i fatti successivi a tale data e prescritto per quelli precedenti.
XIV legislatura
Dopo un anno di vita, l'UDR si sciolse e larga parte di essa confluì nel nuovo soggetto politico creato da Clemente Mastella, l'UDEUR. Cossiga vi aderì in maniera puramente simbolica, per fuoriuscirne definitivamente il 6 novembre 2003, quando abbandonò, al Senato, il gruppo misto per iscriversi al gruppo per le autonomie.
Nel giugno 2002 ha annunciato le dimissioni da senatore a vita, che peraltro non ha mai presentato.
Nel 2003 pubblica Discorso sulla giustizia[69], un pamphlet che raccoglie alcuni fra i suoi scritti in tema di giustizia su argomenti quali il delicato rapporto fra primato del Parlamento da un lato e indipendenza della magistratura dall'altro, e quello della problematica conciliabilità fra politicizzazione del magistrato e imparzialità della giurisdizione. Il suo progetto per una riforma utopica si accompagna ad altri interventi che Cossiga, cogliendo occasione da vicende giudiziarie e politiche di rilevanza nazionale, ha svolto in sede parlamentare, e non diffusi al di fuori del circuito degli addetti ai lavori.
Nel 2004 fece alcune affermazioni (riprese nel 2007 e ribadite poi nell'autobiografia La versione di K)[70] sulla strage di Bologna: in una lettera indirizzata a Enzo Fragalà, capogruppo di Alleanza Nazionale nella Commissione Mitrochin ipotizza un coinvolgimento del terrorismo palestinese, nella strage che lui stesso dichiarò «fascista», salvo poi cambiare idea nel 1990, affermando che fu mal consigliato dai servizi segreti che lo indirizzarono sulla pista nera in maniera erronea. Il Presidente emerito affermò di avere «il dubbio grave» che la strage fosse il risultato «o di un atto del terrorismo arabo o della fortuita deflagrazione di una o più valigie di esplosivo trasportato da palestinesi, che si credevano garantiti dall'“accordo Moro”»[71].
Va detto come questa posizione si iscrive nella cornice ideologica di un aperto schieramento di Cossiga a favore di Israele e del sionismo.[27]
Nel 2008 Cossiga ha reiterato questa affermazione in un'intervista al Corriere della Sera in cui ribadiva la sua convinzione secondo cui la strage non sarebbe da imputarsi al terrorismo nero, ma ad un incidente di gruppi della resistenza palestinese operanti in Italia[72].
Allo stesso tempo smentì più volte di avere sostenuto tesi complottiste sugli attentati dell'11 settembre 2001, voci diffuse soprattutto su internet,[73][74] tesi che lui stesso riferì nuovamente qualche anno più tardi in un comunicato, in realtà di tono ironico, pubblicato dal Corriere della Sera, ma ripreso anche da organi di informazione internazionali.[75][76][77][78][79]
XV legislatura
Cossiga ha collaborato attivamente con diversi quotidiani, scrivendo anche sotto lo pseudonimo «Franco Mauri» per Libero e «Mauro Franchi» per Il Riformista. Alla fine del 2005 ha pubblicato sul quotidiano Libero una lettera nella quale ha annunciato di non volersi più occupare attivamente della politica italiana, ma non pare avervi dato pienamente seguito.
Il 15 maggio 2006 presenta in Senato il DDL Costituzionale n. 352, per la riforma delle istituzioni Sarde e il riconoscimento della Nazione Sarda[80].
Il 23 maggio 2006 ha presentato un disegno di legge costituzionale, (dopo la sua morte, mai più discusso) per l'attuazione di un referendum sull'autodeterminazione della Provincia di Bolzano. Il referendum prevedeva più quesiti: se si voleva restare a far parte della Repubblica Italiana, se si voleva diventare parte di quella austriaca, se si voleva diventare un Land della Germania o se si voleva diventare uno Stato sovrano[81].
Il 27 novembre 2006 ha presentato al Presidente del Senato, Franco Marini, le dimissioni da senatore a vita, ritenendosi «ormai inidoneo ad espletare i complessi compiti e ad esercitare le delicate funzioni che la Costituzione assegna come dovere ai membri del parlamento nazionale». Le dimissioni sono state respinte dal Senato in data 31 gennaio 2007: il numero dei senatori contrari alle dimissioni è stato di 178, i favorevoli 100 e gli astenuti 12.
L'intera vicenda si è sviluppata in seguito a un'interpellanza parlamentare del mese di novembre 2006 nella quale il presidente emerito richiedeva al Ministro dell'Interno Giuliano Amato di chiarire i motivi del pagamento di due giornalisti da parte del Dipartimento della pubblica sicurezza, diretto dal prefetto Gianni De Gennaro. Data la non immediata disponibilità a chiarire direttamente la vicenda da parte del ministro Amato, in aula venne letta una risposta scritta da De Gennaro. Non condividendo il comportamento tenuto dal Ministro, Cossiga ribatteva con una delle sue note «picconate»: «[Ha preferito rispondere] lo scagnozzo di quel losco figuro (tale Roberto Sgalla) del capo della polizia che si chiama Gianni De Gennaro [...]». Nella stessa data, prima del voto di cui sopra, Francesco Cossiga ha presentato pubbliche scuse allo stesso De Gennaro.
Il 6 dicembre 2007 è stato determinante per salvare dalla crisi il governo Prodi, con il suo voto al decreto sicurezza, sul quale l'esecutivo aveva posto la questione di fiducia.
Ha anche rilasciato dichiarazioni sulla strage di Ustica, all'epoca della quale era Presidente del Consiglio, attribuendo la responsabilità del disastro a un missile francese «a risonanza e non ad impatto» destinato ad abbattere l'aereo su cui si sarebbe trovato il dittatore libico Muʿammar Gheddafi[82][83]. Tesi analoga è alla base della conferma, da parte della Cassazione, della condanna al pagamento di un risarcimento ai familiari delle vittime inflitta in sede civile ai ministeri dei trasporti e della difesa dal Tribunale di Palermo, sentenza che ha riconosciuto le prove di quanto affermato dall'ex Capo dello Stato[84].
Il 23 ottobre 2008, in un'intervista al Quotidiano Nazionale, propone al Ministro dell'Interno Roberto Maroni la sua soluzione per contenere il dissenso universitario nei confronti della legge 133/2008: evitare di chiamare in causa la polizia, ma screditare il movimento studentesco infiltrando agenti provocatori, e solo allora, dopo aver lasciato «che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi», «forti del consenso popolare [...] le forze dell'ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale», picchiando in particolar modo i docenti: «Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì». Nell'affermare ciò Cossiga sostenne che il terrorismo degli anni settanta era partito proprio dalle Università, e confermò di avere già attuato una strategia simile quando egli stesso era stato Ministro dell'Interno[85]. In seguito a questa intervista Alfio Nicotra, della direzione nazionale del PRC e responsabile del Dipartimento Pace e Movimenti del PRC ha chiesto di riaprire l'inchiesta sulla morte di Giorgiana Masi, uccisa in circostanze non ancora chiarite durante una manifestazione nel 12 maggio 1977, periodo nel quale stesso Cossiga era ministro dell'Interno[86]. Inoltre la senatrice Donatella Poretti (Radicale eletta nelle file del PD) ha deciso di depositare un disegno di legge per l'istituzione di una commissione d'inchiesta sull'omicidio della Masi.
Dopo la sua morte vennero aperte quattro lettere che Cossiga aveva indirizzato alle quattro massime autorità dello Stato in carica al momento della sua morte[89][90].
Lasciò un testamento, con indicazioni dettagliate per il funerale: sulla bara dovevano esserci la bandiera sarda dei quattro mori e il tricolore italiano.[27]
Nel dicembre 2013 venne pubblicata da tre quotidiani nazionali (Corriere della Sera, La Stampa e Il Messaggero) una lettera spedita nel 2005 da Cossiga a Giorgio Napolitano, in occasione della sua nomina a senatore a vita[94].
Vita privata
Cossiga sposò nel 1960 Giuseppa Sigurani (Sassari, 1937 - Sassari, 8 maggio 2018), da cui ebbe due figli: Annamaria e Giuseppe. La consorte, di carattere particolarmente schivo, non ha mai condotto una vita pubblica. Il matrimonio si concluse con una separazione, nel 1993, che condusse al divorzio, cinque anni dopo. Nel 2007, gli ex coniugi ottennero dalla Sacra Rota la dichiarazione di nullità del matrimonio[95].
Era affetto da depressione ed aveva un carattere bipolare: lui stesso parlava dell’omino bianco — gioioso, allegro — e dell’omino nero, che vedeva tutto negativo. Una malattia che lo accompagnò fino alla fine anche se, nell'ultimo anno, come ricorda la figlia Anna Maria, "vedeva solo nero".[27]
Fra i suoi fidatissimi, il politico sassarese amava essere chiamato con il soprannome di «don Cecio da Chiaramonti»[96].
Appassionato radioamatore, Cossiga era titolare di stazione con il nominativo «I0FCG»[97][98]. Prima di diventare radioamatore trasmetteva sulla banda cittadina con il nominativo «Andy Capp» e, nei primi anni settanta, si era impegnato per legalizzare la «CB»[99]. Durante il suo mandato presidenziale trasferì la sua stazione al Quirinale; dopo il mandato, ha ripetutamente mostrato la stazione alla TV.
Cossiga dispose due volte che la banda militare del Quirinale eseguisse l'inno sardo Cunservet Deus su Re: nel 1991, durante il tradizionale ricevimento degli ambasciatori stranieri e nel 1992, all'atto delle sue dimissioni da Capo dello Stato[100].
Negli ultimi due anni di mandato come presidente della Repubblica i suoi interventi, talora volutamente eccessivi e con un'ampia esposizione mediatica, valsero a Cossiga l'appellativo di «picconatore».[102] Fu lui stesso a definire tali esternazioni, con riferimento a un noto brano del cantante Natalino Otto, un «levarsi i sassolini dalla scarpa», per sottolinearne la natura di reazione ad attacchi cui si riteneva sottoposto[103]. Nell'agosto 1990, durante le vacanze che trascorreva sull'Altopiano del Cansiglio, disse ai giornalisti che lo seguivano di aver fatto una lunga camminata su un sentiero pietroso e quindi di volersi togliere un sassolino da una scarpa, iniziando in questo modo venti giorni di esternazioni caustiche e clamorose che continueranno fino alla fine della sua presidenza[104].
Nel periodo in cui era Ministro dell'Interno, nelle scritte sui muri dei manifestanti, il suo nome veniva storpiato con una kappa iniziale e usando la doppia esse delle SS naziste (sowilo, lettera dell'alfabeto runico), in una forma somigliante a Koϟϟiga.
Nel corso degli anni, contemporaneamente al riemergere di inchieste che hanno riguardato lo stesso Cossiga, trattanti stragi e fatti legati alla strategia della tensione[105] si è affermato che il politico sassarese fosse affiliato alla Massoneria[106]. La stessa famiglia di Cossiga vantava numerosi membri iscritti alla Gran Loggia d'Italia degli Alam, nel Rito scozzese antico ed accettato; addirittura il nonno Antonio Zanfarino aveva conseguito il 33º grado (il più alto) del citato rito Scozzese[107]. Queste voci erano anche legate alle dichiarate fedeltà atlantiste e alla sua vicinanza con uomini degli apparati militari della NATO, ma furono sempre smentite. Cossiga, infatti, affermò di non poter «essere massone perché sono cattolico, e credo fermamente che le due condizioni siano incompatibili»; dichiarò, tuttavia, di conoscere moltissimi massoni e di aver tentato, tramite Licio Gelli, di intercedere per i desaparecidos italiani presso il generale argentino Emilio Eduardo Massera, con scarsi risultati[8][108]. Era anche nota la sua amicizia con Armando Corona, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia dal 1982 al 1990 e poi membro dell'UDR di Cossiga[109][110][111]. Negli ultimi anni della sua vita, comunque, Cossiga sviluppò una vera e propria passione e interesse per libri e argomenti trattanti la massoneria[8].
Nel 2008, al TG24 di Sky, disse di Luca Palamara presente in studio “È un magistrato che o non capisce nulla di diritto o è molto spiritoso. La faccia da intelligente non ce l'ha assolutamente”, per poi rincarare la dose con ironie circa il cognome del magistrato ("Palamara come il tonno").[112]
Il 24 gennaio 2008, durante la trasmissione televisiva Unomattina condotta da Luca Giurato, in merito all'ipotesi di proporre Mario Draghi (allora Governatore della Banca d'Italia) come futuro Presidente del Consiglio dei ministri, disse: "È un vile, un vile affarista. Non si può nominare Presidente del Consiglio dei ministri chi è stato socio della Goldman Sachs, grande banca d'affari americana. E male, molto male, io feci ad appoggiarne, quasi a imporne la candidatura a Silvio Berlusconi, male molto male. È il liquidatore dopo la famosa crociera sul "Britannia" dell'industria pubblica, la svendita dell'industria pubblica italiana quando era Direttore generale del tesoro e immaginati che cosa farebbe da Presidente del Consiglio dei ministri. Svenderebbe quel che rimane: Finmeccanica, l'Enel, l'Eni e certamente i suoi ex comparuzzi di Goldman Sachs".[113]
Ad ottobre 2008, nel pieno della contestazione alla riforma della scuola voluta dall'allora Ministra Gelmini, dichiarò che la strategia giusta sarebbe quella di "Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale”.[114]
Gradi militari
Pur non avendo mai svolto il servizio militare di leva, in quanto «figlio maschio di padre inabile al lavoro proficuo»[115], Cossiga conseguì il grado di complemento di Capitano di fregata della Marina Militare, per nomina presidenziale di Giovanni Leone e volentieri ne indossava la divisa. Detta nomina avvenne in base al R.D. 16 maggio 1932, n. 819 («legge Marconi»)[116]. In precedenza, il 23 novembre 1961, aveva conseguito il grado di Capitano di corvetta, sempre con provvedimento del presidente della Repubblica (all'epoca, Giovanni Gronchi). Il fatto emerse pubblicamente quando nelle lettere di un magistrato suicida, il cagliaritano Luigi Lombardini, vi si alluse come a un soprannome[117]. Cossiga ha affermato che i suoi gradi di marina gli sarebbero stati conferiti nell'ambito dell'operazione Gladio o Stay-behind: «Per darmi una 'copertura' io fui poi nominato Capitano di Corvetta della Marina e nominato "operatore" del Goi del Comsubin»[15]. In realtà nel 1961 era già parlamentare.
Onorificenze
Onorificenze italiane
Nella sua qualità di Presidente della Repubblica italiana è stato, dal 3 luglio 1985 al 28 aprile 1992:
^abFrancesco Cossiga, su quirinale.it, quirinale.it. URL consultato il 20 ottobre 2010.
^abcdDA PRESIDENTE NOTAIO A PICCONATORE, su cronologia.leonardo.it, cronologia.leonardo.it. URL consultato il 17 novembre 2017 (archiviato dall'url originale il 29 gennaio 2017).
^ Gianni Flamini, L'Italia dei colpi di Stato, Roma, Newton Compton, 2007, p. 79.
^ Lino Jannuzzi, In morte di un Picconatore, in Il Foglio, 18 agosto 2010. URL consultato il 24 gennaio 2013 (archiviato dall'url originale il 28 gennaio 2013).
^ Marco Galluzzo, L'ira di Cossiga: lascio Palazzo Madama, in Corriere della Sera, 2 giugno 2002. URL consultato il 16 ottobre 2011 (archiviato dall'url originale il 3 agosto 2012).
^ Francesco Cossiga e Pasquale Chessa, Italiani sono sempre gli altri. Controstoria d'Italia da Cavour a Berlusconi, Milano, Mondadori, 2007, pp. 249, ISBN88-04-57573-5.
^ Aldo Cazzullo, Cossiga: così avvertimmo Donat-Cattin, in Corriere della Sera, 7 settembre 2007. URL consultato il 17 novembre 2017 (archiviato dall'url originale il 25 ottobre 2015).
^ Francesco Cossiga, Cossiga e le risposte sul caso Donat-Cattin, in Corriere della Sera, 11 settembre 2007. URL consultato il 17 novembre 2017 (archiviato dall'url originale il 31 dicembre 2015).
^Giampiero Buonomo, Maxi-emendamento nella speranza di tappare le falle del codice militare di guerra, Diritto e Giustizia, 24 gennaio 2002.
^Relazione della Commissione istituita dal Governo Goria per l'esame dei problemi costituzionali concernenti il comando e l'impiego delle Forze Armate, in Quad. cost. 2/1988, 318 ss. Tale relazione conclusiva invitava, sul meccanismo di attivazione della legge di guerra, a sanare la «principale sfasatura rispetto alla Costituzione vigente», consistente nel fatto «che il Parlamento non vi è preso in alcuna considerazione», in patente difformità dall'articolo 78 Cost. sulla deliberazione parlamentare dello stato di guerra.
^Pietro Scoppola, Identità nazionale e riforma delle istituzioni, Storia e problemi contemporanei. DICEMBRE, 1998, Urbino (Pesaro Urbino) : [poi] Bologna: Edizioni Quattro Venti; CLUEB, 1998.
^ Marco Travaglio, Bananas, Milano, Garzanti, 2003, p. 115.
^Francesco Cossiga, Quando al Plenum mandai i carabinieri, il Giornale, 20 luglio 2005.
^ Virginia Piccolillo, Cossiga: reato ridicolo, i giudici sono una lobby, in Corriere della Sera, 19 gennaio 2008. URL consultato il 2 luglio 2013 (archiviato dall'url originale il 27 settembre 2015).
^ Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia degli anni di fango, Milano, Rizzoli, 1993. «La magistratura romana cui Casson aveva trasmesso perché "incompetente" il fascicolo sull'organizzazione – ma per dichiararsi incompetente aveva redatto una vera e propria requisitoria in cui asseriva la perversa natura di Gladio – fu di parere opposto al suo. Non c'era nulla nella struttura Stay-behind che avesse rilevanza giudiziaria. I gladiatori erano galantuomini.».
^cari concittadini, allora ho deciso, in Corriere della Sera, 26 aprile 1992. URL consultato il 19 dicembre 2014 (archiviato dall'url originale il 20 dicembre 2014).
^Osama-Berlusconi? «Trappola giornalistica», in Corriere della Sera, 30 novembre 2007. URL consultato il 31 luglio 2014. «Da ambienti vicini a Palazzo Chigi, centro nevralgico di direzione dell'intelligence italiana, si fa notare che la non autenticità del video [un video in cui Osama bin Laden minaccia Silvio Berlusconi] è testimoniata dal fatto che Osama Bin Laden in esso 'confessa' che Al Qaeda sarebbe stato l'autore dell'attentato dell'11 settembre alle due torri in New York, mentre tutti gli ambienti democratici d'America e d'Europa, con in prima linea quelli del centrosinistra italiano, sanno ormai bene che il disastroso attentato è stato pianificato e realizzato dalla CIA americana e dal Mossad con l'aiuto del mondo sionista per mettere sotto accusa i Paesi arabi e per indurre le potenze occidentali ad intervenire sia in Iraq sia in Afghanistan».
^Francesco Cossiga: «Voglio sentire il suono delle ambulanze», su Micromega online, 31 ottobre 2008. URL consultato il 23 febbraio 2018 (archiviato dall'url originale il 23 maggio 2019). Ripubblica il testo di un'intervista a Cossiga pubblicata su Quotidiano Nazionale (Il Giorno / Resto del Carlino / La Nazione) il 23 ottobre 2008.
^ Lorenzo Fuccaro, Cossiga, matrimonio annullato dalla Sacra Rota, in Corriere della Sera, 16 ottobre 2007. URL consultato l'11 agosto 2009 (archiviato dall'url originale il 6 dicembre 2009).
Anthony Muroni, Cossiga e l'alfabeto con la K (prefazione di Paolo Savona), Santelli editore, Cinisello Balsamo (Milano), 2020. ISBN 978-8892920125
AA.VV., Cossiga e l'intelligence (a cura di Mario Caligiuri), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011.
AA.VV., La grande riforma mancata. Il messaggio alle Camere del 1991 di Francesco Cossiga (a cura di Pasquale Chessa e Paolo Savona), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2014.
Antonella Beccaria, Piccone di Stato. Francesco Cossiga e i segreti della Repubblica, Roma, Nutrimenti, 2010.
Mario Benedetto, Francesco Cossiga. L'Italia di K, Roma-Reggio Emilia, Aliberti, 2011.
Marzio Breda, La guerra del Quirinale. La difesa della democrazia ai tempi di Cossiga, Scalfaro e Ciampi, Milano, Garzanti, 2006.
Antonio Casu, Il potere e la coscienza. Thomas More nel pensiero di Francesco Cossiga, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, ISBN 88-498-3171-4, ISBN 978-88-498-3171-9.
Nando dalla Chiesa, Lo statista. Francesco Cossiga. Promemoria su un presidente eversivo, Milano, Melampo, 2011.
Renato Farina, Cossiga mi ha detto. Il testamento politico di un protagonista della storia italiana del Novecento, Venezia, Marsilio, 2011.
Giovanni Galloni, Da Cossiga a Scalfaro. La Vicepresidenza del Consiglio Superiore della Magistratura nel quadriennio 1990-1994, Roma, Editori Riuniti, 2011.
Enrico Galavotti, Francesco Cossiga, in I Presidenti della Repubblica. Il Capo dello Stato e il Quirinale nella storia della democrazia italiana, direzione di Sabino Cassese, Giuseppe Galasso, Alberto Melloni, vol. I, Bologna, Il Mulino, 2018, pp. 325–363
Opere di Francesco Cossiga
I diritti umani e la loro protezione. La convenzione europea, con Carlo Russo, Giuseppe Sperduti, Marc-Andre Eissen, Fausto Pocar, Roma, Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale, 1986.
Note sulla libertà di espatrio e di emigrazione. Sassari, 1953-Napoli, 1990, Napoli, Università degli studi di Napoli Federico II, 1990.
Externator. Discorsi per una repubblica che non c'è, Milano, Mondadori, 1992.
Parola di Cossiga. Così il presidente ha parlato, Milano, Polypress, 1992.
Parole inutili (forse), Roma, Colombo, 1992.
Il torto e il diritto. Quasi un'autobiografia personale, Milano, Mondadori, 1993.
La passione e la politica, Milano, Rizzoli, 2000.
Pensieri in libertà. Ma secondo un criterio. Sei interviste, Roma, Colombo, 2000.
Francesco Cossiga (a cura di), Sir Thomas More, santo e martire. Patrono dei governanti e dei politici. Raccolta documentale, Roma, Colombo, 2001.
Discorso sulla giustizia, Macerata, Liberilibri, 2003.
La guerra versus l'Irak. Luci e ombre per un cattolico liberale. Lettera ad un giovane amico cattolico, Roma, Colombo, 2003.
Pensieri di un cristiano democratico per gli amici de Il circolo, ovvero Il discorso che non ho potuto pronunciare, Roma, Colombo, 2003.
Per carità di patria. Dodici anni di storia e politica italiana, 1992-2003, Milano, Mondadori, 2003.
Italiani sono sempre gli altri. Controstoria d'Italia da Cavour a Berlusconi, Milano, Mondadori, 2007.
La versione di K. Sessant'anni di controstoria, con Marco Demarco, Roma-Milano, Rai ERI-Rizzoli, 2009.
Fotti il potere, intervista di Andrea Cangini, Roma-Reggio Emilia, Aliberti, 2010.
L'uomo che guardò oltre il muro. La politica estera italiana dagli euromissili alla riunificazione tedesca svelata da Francesco Cossiga, interviste di Clio Pedone, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012.