La morte di Benito Mussolini avvenne il 28 aprile 1945 a Giulino, frazione del comune di Mezzegra (oggi Tremezzina), in provincia di Como, dove fu ucciso con colpi di arma da fuoco insieme all'amante Clara Petacci; gli altri gerarchi fascisti con i quali era stato catturato furono invece fucilati a Dongo, luogo della sua cattura.
Il 20 aprile, nei locali della prefettura dove era ormai rinchiuso, concesse un incontro al giornalista Gian Gaetano Cabella, direttore del giornale Popolo di Alessandria, e, alla richiesta del giornalista di potergli rivolgere qualche domanda, lo sorprese, rispondendo: "Intervista o testamento?". Fu l'ultima intervista rilasciata da Mussolini, che la rilesse, corresse e siglò il 22 aprile[nota 1].
Sempre il 22 aprile, nel cortile della prefettura, pronunciò l'ultimo discorso a un centinaio di ufficiali della Guardia Repubblicana, concludendo: "Se la Patria è perduta, è inutile vivere". La sera incontrò Carlo Silvestri e gli consegnò una dichiarazione per il comitato esecutivo del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, in cui chiedeva che la RSI finisse in mani repubblicane e non monarchiche, socialiste e non borghesi.
Il 23 aprile le truppe alleate entrarono a Parma, e da Milano non furono più possibili comunicazioni telefoniche con Cremona e Mantova; il giorno seguente fu liberata Genova e il console tedesco Wolf si fece vivo per richiedere al ministro delle finanze Domenico Pellegrini il versamento anticipato di dieci milioni di lire, quota mensile per le spese di guerra del mese seguente. Il 25 aprile mattina gli operai iniziarono a occupare le fabbriche di Sesto San Giovanni alla periferia di Milano[6].
Nel pomeriggio del 25 aprile, con la mediazione del cardinale-arcivescovo di Milano Alfredo Ildefonso Schuster, si svolse nell'arcivescovado un incontro decisivo tra la delegazione fascista composta da Mussolini stesso, il sottosegretario Barracu, i ministri Zerbino e Graziani (l'industriale Gian Riccardo Cella, l'ex prefetto di Milano ed ex ministro delle corporazioni Mario Tiengo e il prefetto di Milano Mario Bassi non parteciparono direttamente ai colloqui) e una delegazione del CLN composta dal generale Cadorna, dall'avvocato democristianoMarazza, dal rappresentante del Partito d'AzioneRiccardo Lombardi e dal liberaleGiustino Arpesani. Sandro Pertini arrivò in ritardo a riunione conclusa. A Milano era intanto in corso lo sciopero generale e l'ordine dell'insurrezione generale era imminente. Durante l'incontro, Mussolini apprese che i tedeschi avevano già avviato trattative separate con il CLN: l'unica proposta che ricevette dai suoi interlocutori fu quindi la "resa incondizionata". Un accordo al momento sembrava possibile: furono offerte garanzie per i fascisti e per i loro familiari[7], ma i repubblichini, anche se senza vie d'uscita, non vollero essere i primi a firmare la resa per essere poi tacciati di tradimento[8]. Si riservarono di dare risposta entro un'ora, lasciando l'arcivescovado e ritirandosi in prefettura, ma non fecero ritorno.
Nel mentre Marcello Petacci, fratello dell'amante di Mussolini, si recò dal console spagnolo di Milano Don Fernando Canthal per avere il suo permesso a un'importante missione per conto di Mussolini stesso: il console accettò ed entrambi si recarono in Prefettura dove si trovava Mussolini. Questi gli affidò una lettera per l’ambasciatore inglese Norton che si trovava a Berna: nella lettera c'era scritto che si offriva la resa della Repubblica Sociale Italiana agli inglesi; in cambio gli inglesi non avrebbero dovuto far cadere il fascismo, ma usarlo come alleato contro i comunisti[9].
In serata, verso le ore 20, mentre i capi della Resistenza, dopo aver atteso invano una risposta, davano l'ordine dell'insurrezione generale, Mussolini, salutati gli ultimi fedeli[nota 2], lasciò Milano e partì in direzione di Como. Assieme ai fascisti si trovava il tenente Birzer con i suoi uomini, incaricato da Hitler di scortare Mussolini ovunque andasse.[nota 3]
Finalità del viaggio
Como rappresentava per Mussolini una meta che offriva diverse possibilità: anzitutto, la città lariana e la sponda occidentale del suo lago erano considerate una zona marginale relativamente protetta e con una limitata presenza partigiana. Qui era possibile trovare un rifugio sicuro e appartato e nascondersi sino a quando gli Alleati, al loro arrivo, avrebbero scoperto il nascondiglio: sarebbe quindi stato possibile consegnarsi loro con garanzie; questo era l'obiettivo principale secondo la testimonianza di Renato Celio, prefetto di Como[10]. In alternativa, Como costituiva anche un punto di passaggio per raggiungere la Valtellina dove già da alcune settimane Alessandro Pavolini prospettava di costituire un estremo baluardo di resistenza, il Ridotto Alpino Repubblicano, e dove erano affluiti tremila uomini del generale Onori ed erano attesi ancora mille uomini del maggiore Vanna. L'idea però era osteggiata, oltre che dai vertici militari tedeschi, anche dal generale Niccolò Nicchiarelli, comandante della GNR, e dal ministro Rodolfo Graziani[11]. Ancora, sembrava possibile costituire un estremo baluardo di difesa proprio nella città lariana, facendo convergere su di essa tutte le forze residue e resistere a oltranza per trattare poi in extremis con gli Alleati al loro arrivo[12]. In effetti a Como si concentrarono numerose formazioni provenienti dalle zone circostanti, condotte da Alessandro Pavolini. L'afflusso durò tutta la notte e parte della mattinata. Alcune fonti parlano di quarantamila fascisti[13], mentre Giorgio Bocca riduce il numero dei militi a soli 6.000-7.000 uomini che, peraltro in giornata, si dispersero dopo che il Duce decise di congedarli, sciogliendo dalla fedeltà al giuramento i suoi fedeli e partendo di nascosto con i ministri alle 3 del mattino[14].
Infine, la vicinanza con la Svizzera poteva offrire un'estrema possibile via di fuga, anche se Mussolini aveva in precedenza rifiutato sempre questa possibilità: peraltro le autorità svizzere, fin dall'estate 1944, avevano rifiutato la richiesta d'ingresso nel loro paese ai gerarchi fascisti e ai loro familiari[12]. Il rifiuto era stato confermato in quegli stessi giorni dal rappresentante elvetico a Milano, Max Troendle[15]. In Svizzera era possibile poi concretizzare trattative con diplomatici americani, attraverso l'intermediazione del console spagnolo a Berna, oppure come meta momentanea per poi raggiungere la Spagna[16]. Le testimonianze degli accompagnatori italiani superstiti di quei giorni riferiscono concordemente del rifiuto di Mussolini a espatriare, ma è il tenente Birzer a parlare del tentativo di fuga di Mussolini e compagnia.[nota 4].
Como
Durante il viaggio, il furgone di coda del convoglio, che trasportava valori e documenti di particolare importanza politica e militare, andò in panne nei pressi di Garbagnate: l'equipaggio, tra cui Maria Righini, cameriera personale di Mussolini, raggiunse Como con mezzi di fortuna. Vani risultarono i tentativi di recupero del "camioncino-archivio", effettuati nella notte: Mussolini rimase quindi in possesso di soli documenti riservatissimi, da lui selezionati prima della partenza, che aveva riposto in due borse di pelle.
Le due casse in zinco e le due borse in pelle
Il furgone abbandonato in panne sulla via di Como, un "Balilla Van", verrà poi ritrovato la mattina seguente dai partigiani[17]. Secondo Howard McGaw Smyth delle due casse di zinco, portate da Gargnano, esso trasportava solo una, che risultò dispersa[18], mentre l'altra cassa di zinco sarebbe rimasta alla Prefettura di Milano e lì fu trovata dai partigiani. Secondo Gianfranco Bianchi, invece, questa seconda cassa fu catturata dalla sedicesima Brigata del popolo del Corpo volontari della libertà (distaccamento Garbagnate) ed i relativi documenti erano "in deposito presso l'avv. Luigi Meda, il quale aveva rilasciato regolare ricevuta, in qualità di presidente del CLN di Milano"[19]. La questione della loro successiva sparizione, denunciata da Renzo De Felice[20], è stata risolta dal ritrovamento che ne ha fatto lo storico Mauro Canali, confrontando la nota di consegna, stilata nel 1945 dai partigiani Allievi all'avvocato Meda, con i documenti versati dal Ministero dell’interno all’Archivio centrale dello Stato «in una serie particolare della Polizia politica, la cosiddetta serie B. Il versamento ebbe luogo il 9 luglio del 1969, e i documenti sono inventariati sotto la voce ‘Processo Matteotti’»[21].
Alle 21:30 il capo del fascismo raggiunse la prefettura di Como. Il giorno precedente nella città comasca era arrivata anche la moglie Rachele con i figli Romano e Anna Maria, ma Mussolini si rifiutò di incontrarli[22], limitandosi a scriver loro una lettera d'addio e a fare una telefonata con cui raccomandava alla moglie di portare i figli in Svizzera[nota 5]. Durante la notte insonne, febbrili incontri con le autorità locali demolirono la possibilità di una sosta prolungata nella città, giudicata indifendibile. Rodolfo Graziani consigliò di ritornare a Milano, mentre la maggior parte — in particolar modo Guido Buffarini Guidi e Angelo Tarchi — spinsero per entrare in Svizzera, anche in maniera illegale. Su indicazione del federale di ComoPaolo Porta si scelse di proseguire verso Menaggio.
Verso le quattro del mattino del 26 aprile, cercando invano di eludere la sorveglianza tedesca, il convoglio fascista abbandonò precipitosamente Como muovendosi verso nord, costeggiando il lato occidentale del lago di Como lungo la strada Regina e giungendo a Menaggio verso le cinque e trenta senza problemi.
L'edizione del 26 aprile del Corriere della Sera uscì dedicando la sua prima pagina all'insurrezione generale di Milano contro le forze nazifasciste e riportando, sempre nella stessa pagina, la notizia dell'abbandono di Milano col titolo: "Mussolini scompare da Milano dopo drammatiche tergiversazioni"[nota 6].
Menaggio e Grandola
A Menaggio proseguirono le discussioni e le riunioni sul da farsi, mentre nel centro lariano continuavano ad arrivare importanti personalità fasciste e la notizia presto si diffondeva. Rodolfo Graziani spinse per tornare indietro; inascoltato, si congedò e fece ritorno verso Como. Anche Alessandro Pavolini ritornò sui suoi passi per raccogliere e far convergere su Menaggio i militari arrivati a Como, ma lungo il tragitto fu attaccato da una formazione partigiana rimanendo lievemente ferito. Molti intendevano sconfinare in Svizzera, prendendo la via di Porlezza e di là a Lugano[nota 7]. Si scelse di allontanarsi da Menaggio e di temporeggiare. Alla partenza, improvvisa per cercare di liberarsi dell'oppressiva presenza della gendarmeria tedesca, il convoglio deviò a ovest in Val Menaggio per giungere a Cardano, frazione del piccolo comune di Grandola ed Uniti, presso la caserma della 53ª compagnia della Milizia Confinaria con sede all'ex albergo Miravalle.
A Cardano, Mussolini fu raggiunto dall'amante Claretta Petacci, accompagnata dal fratello, e dalla scorta tedesca che aveva ricevuto l'ordine da Hitler di scortarlo verso la Germania. Qui apprese che a Chiavenna un aereo da trasporto era pronto al decollo per portarlo in salvo in Baviera[23]. A Grandola fu raggiunto anche da Vezzalini, capo della provincia di Novara, e dal maggiore Otto Kinsnatt della Waffen-SS, diretto superiore del tenente Fritz Birzer, proveniente dal lago di Garda[24]. In serata giunse la notizia che i ministri Guido Buffarini Guidi e Angelo Tarchi e il vicecommissario della prefettura di Como Domenico Saletta, che tentavano l'espatrio forzando la dogana, erano stati arrestati proprio a Porlezza dai partigiani. Nel frattempo la radio annunciava che anche Milano era stata completamente liberata e che i responsabili della disfatta nazionale trovati con le armi in mano sarebbero stati puniti con la pena di morte[25]. Tutto volgeva al peggio e la disperazione aveva contagiato i presenti.
Nell'impossibilità di proseguire in quella direzione e constatata l'indifendibilità della piccola guarnigione da un eventuale attacco partigiano, si fece ritorno a Menaggio. Nella notte arrivò Pavolini, senza i numerosi contingenti sperati ma con soli sette o otto militi della GNR.
Dongo
Nella notte, assieme a Pavolini, giunse a Menaggio un convoglio militare tedesco in ritirata composto da trentotto autocarri e da circa duecento soldati della FlaK, la contraerea tedesca, al comando del tenente Willy Flamminger[26] diretto a Merano attraverso il passo dello Stelvio. Mussolini, con i gerarchi fascisti e le rispettive famiglie al seguito, decise di aggregarvisi. La colonna, lunga circa un chilometro, alle cinque del mattino partì da Menaggio, ma alle sette, appena fuori dall'abitato di Musso, fu fermata a un posto di blocco delle Brigate Garibaldi; dopo una breve sparatoria, e in seguito a lunghe trattative, i tedeschi ottennero il permesso di proseguire a condizione che si effettuasse un'ispezione, e che fossero consegnati tutti gli italiani presenti nel convoglio, nel sospetto che vi fosse il Duce con qualche gerarca in fuga. Mussolini, su consiglio del capo della sua scorta SS, il sottotenente Fritz Birzer, indossò un cappotto e un elmetto da sottufficiale della Wehrmacht, si finse ubriaco e salì sul camion numero 34 della Flak, occultandosi in fondo al pianale, vicino alla cabina di guida, ricoperto da una coperta militare. A nessun altro italiano fu concesso di tentare di seguire nascostamente Mussolini nel convoglio.
Verso le ore 16 del 27 aprile, durante l'ispezione della colonna tedesca in piazza a Dongo, Mussolini fu riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri[nota 8] sotto una panca del camion n. 34. Fu perciò prontamente disarmato del mitra e di una pistola Glisenti, arrestato e preso in consegna dal vicecommissario di brigata Urbano Lazzaro "Bill" che lo accompagnò nella sede comunale, ove gli fu sequestrata la borsa di cui era in possesso[nota 9].
I 15 gerarchi giustiziati a Dongo
I 15 gerarchi giustiziati a Dongo dopo le 17 del 28 aprile furono:
Tutti gli altri componenti italiani al seguito furono arrestati: si trattava di più di cinquanta[28] persone, più le mogli e i figli al seguito. Tra di essi la maggior parte dei membri del governo repubblichino, più alcune personalità politiche, militari e sociali accompagnati dai loro familiari. Qualcuno si consegnò spontaneamente, altri tentarono di comprarsi una possibilità di fuga, offrendo ingenti somme e valori alla popolazione locale. Gli occupanti di un autoblindo cercarono di resistere ingaggiando una sparatoria, Pietro Corradori e Alessandro Pavolini fuggirono buttandosi nel lago, ma furono ripresi e Pavolini rimase ferito. Il giorno seguente quindici di essi, scelti tra gli esponenti fascisti più rilevanti del gruppo, furono sommariamente fucilati sul lungolago di Dongo; tra i restanti, rimasti agli arresti a Dongo e poi trasferiti a Como, nelle due notti successive fu prelevata e uccisa un'ulteriore decina di prigionieri.[29].
Il fermo della colonna motorizzata tedesca e il successivo arresto di Mussolini e del suo seguito era stato effettuato dai partigiani del distaccamento "Puecher" della 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici", comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle, nome di battaglia "Pedro". Il suo commissario politico era Michele Moretti "Pietro Gatti", vice-commissario politico Urbano Lazzaro "Bill", il capo di stato maggioreLuigi Canali "Capitano Neri". Tra i gerarchi al seguito del dittatore, furono arrestati anche Francesco Maria Barracu, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alessandro Pavolini, Ministro segretario del PFR, Ferdinando Mezzasoma, Ministro della cultura popolare, Augusto Liverani, Ministro delle comunicazioni, Ruggero Romano, Ministro dei lavori pubblici, Paolo Zerbino, Ministro dell'interno. Fu arrestato anche Marcello Petacci, fratello di Claretta, che a bordo di un'Alfa Romeo 6C 1500 recante bandiera spagnola, seguiva il convoglio con la convivente Zita Ritossa, i figli Benvenuto e Ferdinando e la sorella. Esibendo un falso passaporto diplomatico spagnolo si dichiarava estraneo al convoglio, spacciandosi per diplomatico spagnolo. Anche Clara era in possesso di un passaporto spagnolo intestato a Donna Carmen Sans Balsells[30]. Tra i fermati c'era anche la presunta figlia naturale del Duce, Elena Curti[31][32].
Nello stesso tempo, i prigionieri rimasti a Dongo furono interrogati e schedati dal "capitano Neri" e separati in tre gruppi distinti: Bombacci, Barracu, Utimpergher, Pavolini e Casalinuovo furono anch'essi trasferiti a Germasino; i ministri rimasero rinchiusi nei locali del municipio; gli altri, autisti, impiegati, militari - tra cui l'agente dei servizi segreti Rosario Boccadifuoco - furono distribuiti nell'ex caserma dei Carabinieri e in case private. I Petacci, di cui non si era ancora scoperto la vera identità, furono alloggiati all'albergo Dongo. La partigiana "Gianna", in collaborazione con l'impiegata comunale Bianca Bosisio, eseguì l'inventario di tutti gli ingenti valori e i beni sequestrati.
Decisioni del CLNAI a Milano
Nel tardo pomeriggio del 27 aprile il brigadiere Antonio Scappin "Carlo"[33] era riuscito a comunicare su ordine di "Pedro", telefonando attraverso una linea telefonica privata, la notizia dell'arresto a Milano. Una seconda comunicazione giunse alle 20:20, tramite fonogramma, con la quale si comunicava che Benito Mussolini si trovava sotto controllo a Germasino custodito da partigiani e Guardia di Finanza.
Già nella mattina del 25 aprile il CLNAI, riunitosi a Milano, aveva approvato un Decreto per l'amministrazione della giustizia ove, all'art. 5 si prevedeva che: “i membri del governo fascista e i gerarchi fascisti colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, d'aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del paese e di averlo condotto all'attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e, nei casi meno gravi con l'ergastolo”. Dello stesso tenore, il 19 aprile era stato emesso un Ultimatum "Sia ben chiaro per tutti che chi non si arrende sarà sterminato"[nota 10].
Con il diffondersi della notizia, giungevano al comando del CLNAI dal quartiere generale OSS di Siena diversi telegrammi con la richiesta di affidamento al controllo delle forze delle Nazioni Unite di Mussolini.[34] Infatti, la clausola numero 29 dell'armistizio lungo siglato a Malta da Eisenhower e dal maresciallo d'Italia Pietro Badoglio il 29 settembre 1943, prevedeva espressamente che: «Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra o reati analoghi, i cui nomi si trovino sugli elenchi che verranno comunicati dalle Nazioni Unite e che ora o in avvenire si trovino in territorio controllato dal Comando militare alleato o dal Governo italiano, saranno immediatamente arrestati e consegnati alle Forze delle Nazioni Unite».[35] All'aeroporto di Bresso intanto si inviò un velivolo per prelevare il dittatore[36].
Tuttavia, non appena a conoscenza dell'arresto dell'ex capo del governo, il Comitato insurrezionale di Milano formato da Pertini, Valiani, Sereni e Longo, riunitosi alle ore 23:00 del giorno 27, decise di agire senza indugio e di inviare una missione a Como onde procedere all'esecuzione di Mussolini[37]; questo per aggirare il comportamento equivoco del generale Cadorna, diviso tra i doveri di comandante del CLN e la lealtà agli Alleati[38].
Walter Audisio, nome di battaglia "Colonnello Valerio", ufficiale addetto al comando generale del CVL e Aldo Lampredi "Guido" ispettore del comando generale delle Brigate Garibaldi e uomo di fiducia di Luigi Longo, furono incaricati di eseguire la sentenza. Il riluttante generale Raffaele Cadorna, per evitare che Mussolini cadesse nelle mani degli Alleati[39], rilasciò il salvacondotto necessario[40]; Audisio, inoltre, fu munito di un secondo lasciapassare in lingua inglese, firmato dall'agente dell'OSS americano Emilio Daddario[41]. Contemporaneamente, peraltro, Cadorna provvedeva a contattare il tenente colonnello Sardagna[nota 11] rappresentante del CVL a Como, al fine di predisporre misure per recuperare Mussolini e trasferirlo in luogo sicuro[42].
Intanto alle 3 del mattino successivo, il servizio radio partigiano trasmise agli alleati un fonogramma a scopo di depistaggio, nel quale si asseriva l'impossibilità della consegna di Mussolini, in quanto già processato dal Tribunale popolare e fucilato "nello stesso luogo ove precedentemente fucilati da nazifascisti quindici patrioti"[43]. Ci si riferiva alla Strage di Piazzale Loreto del 10 agosto 1944.
Germasino
In attesa di decisioni in merito, e temendo per la sua incolumità, il comandante Bellini delle Stelle, intorno alle 18:30 del 27 aprile, trasferì l'ex duce, insieme con Porta, nella caserma della Guardia di Finanza di Germasino, un paesino sopra Dongo. Prima di ritornare a Dongo "Pedro" riceve la richiesta da Mussolini di portare i saluti alla signora che accompagna il console spagnolo, senza ricevere indicazioni sulla sua vera identità. Dopo l'interrogatorio della signora, Bellini delle Stelle scoprì che si trattava di Clara Petacci, la quale chiese di essere ricongiunta all'amante: il comandante acconsentì.
Se al momento dell'arresto Mussolini sembrava oramai privo di energie, col passare delle ore iniziò a manifestare una certa serenità. Già a Dongo rispondeva volentieri alle domande che gli venivano rivolte, a Germasino si intrattenne con i suoi custodi discutendo su temi di politica, sulla guerra e sulla resistenza[44]. Prima di coricarsi alle 23:30, su richiesta dei partigiani di guardia, Mussolini sottoscrisse questa dichiarazione: «La 52ª Brigata garibaldina mi ha catturato oggi, venerdì 27 aprile, sulla piazza di Dongo. Il trattamento usatomi durante e dopo la cattura è stato corretto. Mussolini».[45] All'1:00 fu svegliato per essere trasferito di nuovo in un posto ritenuto più sicuro e, affinché non fosse riconosciuto, gli fu fasciato il capo. Di nuovo a Dongo, Mussolini fu riunito alla Petacci su richiesta di quest'ultima; poi, i due prigionieri furono fatti salire su due vetture, con a bordo, oltre ai due autisti, anche "Pedro", il "Capitano Neri", "Gatti", la staffetta Giuseppina Tuissi "Gianna" e i giovani partigiani Guglielmo Cantoni "Sandrino Menefrego" e Giuseppe Frangi "Lino"[46] e condotti verso il basso lago.
Bonzanigo
La notizia del trasferimento a Germasino si era oramai diffusa rapidamente: i partigiani temevano un colpo di mano fascista per tentare di liberare Mussolini, o qualche tentativo da parte degli Alleati per impossessarsene. Si decise allora un ulteriore trasferimento in un luogo più distante. "Neri", d'accordo con "Pietro", era del parere di trasferire Mussolini in una baita a San Maurizio di Brunate, sopra Como. L'intenzione di "Pedro" era invece di porre in salvo Mussolini, essendo stato contattato dal tenente colonnello Sardagna, rappresentante del CVL a Como, su ordine del comandante generale Raffaele Cadorna, che aveva predisposto il traghettamento del prigioniero dal molo di Moltrasio sino alla villa dell'industriale Remo Cademartori a Blevio, sull'altra sponda del ramo comasco del Lario. Secondo questo piano, Mussolini e la Petacci avrebbero dovuto essere nascosti all'interno di una grotta naturale sita nel parco di Villa Cademartori.[47] Lungo la strada, tuttavia, dopo aver superato con difficoltà diciotto posti di blocco partigiani, ci si rese conto che era troppo rischioso procedere oltre e non era possibile raggiungere la meta prefissata[48]. "Pedro" convinse quindi il gruppo a fermarsi a Moltrasio ma, giunti sul molo, non fu rinvenuta nessun'imbarcazione pronta ad accoglierli.[42]. Intanto in lontananza furono uditi echi di una nutrita sparatoria, provenienti da una prima avanguardia della 34ª Divisione statunitense che entrava in città. Si decise quindi, su proposta di Canali, di ritornare sui propri passi e di trovare un sicuro rifugio alternativo. Intanto una decina di Jeep di un reparto agli ordini del Generale Bolty perlustravano la zona per cercare di assicurarsi la consegna di Mussolini[49].
Intorno alle ore 3:00 del 28 aprile, Mussolini e la Petacci furono quindi fatti scendere dalle vetture e alloggiati a Bonzanigo, una frazione del comune di Tremezzina, presso la famiglia De Maria, conoscenti di lunga data del "capitano Neri" e di cui il capo partigiano si fidava ciecamente[nota 12]. Il piantonamento notturno fu effettuato dai partigiani Cantoni e Frangi; "Pedro" con l'autista Dante Mastalli ritornò a Dongo, mentre "Neri", "Gianna" e "Pietro" con l'autista ”Andrea" (Giovanni Battista Geninazza) si diressero verso Como.
La morte
La versione storica - cronologia
L'Unità del 29 aprile 1945 riportò la notizia della morte di Mussolini senza ulteriori commenti Mussolini e i suoi accoliti giustiziati dai patrioti in nome del popolo. Il primo resoconto ufficiale, seppur sintetico, comparve sul quotidiano l'Unità nella sua edizione milanese il 30 aprile 1945, ripreso il 1º maggio nell'edizione nazionale. Portava il titolo "L'esecuzione di Mussolini" e non era firmato. In esso non si facevano nomi, ma si parla genericamente di esecutori.
Dal 18 novembre al 24 dicembre 1945, sempre sullo stesso quotidiano nell'edizione romana, in ventiquattro puntate, fu presentata una relazione più dettagliata. Gli articoli non erano firmati, ma erano introdotti da una breve presentazione di Luigi Longo. Qui l'esecutore veniva chiamato con il solo nome di battaglia di colonnello Valerio. Questa versione è stata parzialmente ripubblicata il 25 aprile 1995.
L'identificazione del "Colonnello Valerio" con Walter Audisio fu effettuata solo nel 1947, in un servizio di otto puntate dal sei al sedici marzo firmato da Alberto Rossi, il quotidiano romano Il Tempo e dal periodico neofascista Meridiano d'Italia.
Per questo motivo il 22 marzo, la segreteria del P.C.I. confermò con un comunicato che Valerio e Audisio erano la stessa persona.
Il giorno dopo comparve su l'Unità una biografia di Walter Audisio dal titolo "Colui che fece giustizia per tutti. L'uomo Valerio".
Un circostanziato memoriale, in cui Audisio raccontava in prima persona, fu pubblicato in sei puntate da l'Unità fra il venticinque e il ventinove marzo.
Nel maggio 1972, su richiesta di Armando Cossutta, Aldo LamprediGuido consegnò alla dirigenza del P.C.I. una relazione riservata non destinata alla pubblicazione, che è stata però pubblicata da l'Unità il 26 gennaio 1996.
Nel 1975 Walter Audisio raccontò nel libro postumo In nome del popolo italiano, curato dalla moglie Ernestina Ceriana, le vicende di cui era stato protagonista.
Michele Moretti "Pietro Gatti" rilasciò la sua versione in diverse interviste e dichiarazioni. La testimonianza più rilevante è contenuta nel libro di Giusto Perretta, presidente dell'Istituto comasco per la storia del movimento di Liberazione, Dongo, 28 aprile 1945. La verità pubblicato nel 1997.
Della morte di Benito Mussolini esistono numerosi racconti e versioni, più o meno fantasiosi, che sono stati elaborati negli anni dopo gli avvenimenti. Spesso sono il frutto di campagne propagandistiche e di speculazione politica che non trovano sul terreno storiografico alcun serio riscontro[50].
La versione storica
La Versione storica o ufficiale è la risultante delle testimonianze date sugli avvenimenti che riguardano l'uccisione di Mussolini e della Petacci rilasciate dai tre esecutori. Le versioni che hanno dato sono differenti tra loro, ma sostanzialmente concordano sulla modalità con cui fu eseguita, mentre divergono sugli atteggiamenti e le parole pronunciate[51].
La missione del colonnello "Valerio"
Alle ore 07:00 del 28 aprile, "Valerio" e "Guido" partono dalla scuola di Viale Romagna di Milano, con il supporto di un plotone di quattordici partigiani,[nota 13] agli ordini del comandante Alfredo Mordini "Riccardo", ispettore politico della 3ª Divisione Garibaldi-Lombardia "Aliotta", e di Orfeo Landini "Piero". Giunto a Como, Audisio quindi, esibisce il lasciapassare di Cadorna al nuovo prefetto Virginio Bertinelli e al colonnello Sardagna, assicurando loro che avrebbe trasferito i prigionieri a Como e, in un secondo momento, a Milano[52]. Trattenutosi a Como fino alle 12:15 in cerca di un camion per il trasporto, Audisio si sposta quindi a Dongo, dove giungerà alle 14:10. Lampredi e Mordini intanto, viste le difficoltà a reperire un mezzo di trasporto, abbandonano Audisio in prefettura, e vanno a cercare aiuto nella sede del Partito Comunista. Accompagnati da Mario Ferro e Giovanni Aglietto della federazione comasca P.C.I., lasciano Como verso le 10 e arrivano a Dongo poco dopo Audisio. Intanto giungono da Como anche Oscar Sforni, segretario del CLN comasco, e il maggiore Cosimo Maria De Angelis, responsabile militare del CLNAI per la zona di Como, inviati dal CLN comasco col compito di far rispettare le decisioni prese in mattinata, e di trasportare Mussolini a Como. I due però, intralciando i propositi di "Valerio", saranno da questi fatti imprigionare e verranno rilasciati solo a operazione conclusa.
A Dongo, "Valerio" trova un ambiente difficile e ostile, poiché i partigiani lariani temono un colpo di mano dei fascisti per liberare i catturati. Il "Colonnello" s'incontra con il comandante Pier Luigi Bellini delle Stelle "Pedro", comunicandogli di aver avuto l'ordine di fucilare Mussolini e gli altri prigionieri. "Pedro" però non intende aderire all'ordine e protesta vivamente, ma dopo aver preso visione delle credenziali e ritenendole sufficienti, è costretto a ubbidire a un ufficiale di grado superiore[53].
La presa in consegna di Mussolini e fucilazione
Alle 15:15 Walter Audisio "Valerio" invia "Pedro" a Germasino a prendere gli altri prigionieri, e parte da Dongo con una Fiat 1100 nera in direzione di Bonzanigo, dove l'ex dittatore è tenuto prigioniero con la Petacci. Sono con lui Aldo Lampredi "Guido", Michele Moretti “Pietro”, che conosceva i carcerieri e il luogo essendoci già stato la notte prima, più l'autista ”Andrea"[senza fonte] (Giovanni Battista Geninazza).
Moretti è armato di mitra francese MAS 38, calibro 7,65 lungo[54]; Lampredi è armato di pistola Beretta modello 1934, calibro 9 × 17 mm[nota 14]. L'arma di Walter Audisio, un mitra Thompson, sarà successivamente riconsegnata al commissario politico della divisione partigiana dell'Oltrepò, Alberto Maria Cavallotti, senza essere stata utilizzata[55].
Le varie versioni dei fatti, fornite o riferite da Walter Audisio, pur differendo su particolari minori, descrivono la stessa meccanica dell'evento. L'ultima descrizione degli stessi, pubblicata postuma, a cura della moglie di Audisio[56], è sostanzialmente confermata dal memoriale di Aldo Lampredi, consegnato nel 1972 e pubblicato su l'Unità nel 1996[57].
Giunti a casa De Maria, sempre sorvegliata da "Sandrino" e "Lino", sollecitano Mussolini, trovato stanco e dimesso, e la Petacci a lasciare rapidamente l'abitazione. In strada i prigionieri sono fatti sedere nei sedili posteriori della vettura e vengono accompagnati nel luogo precedentemente scelto per l'esecuzione poco distante[nota 15]: si tratta di un angusto vialetto, via XXIV Maggio a Giulino, in posizione assai riparata davanti a Villa Belmonte, una graziosa residenza di villeggiatura. Qui i due sono obbligati a scendere.
Moretti e Lampredi sono inviati a bloccare la strada nelle due direzioni, mentre a Mussolini viene fatto cenno di dirigersi verso il cancello. Sembra smarrito, Claretta piange. "Valerio" sospinge Mussolini verso l'inferriata e pronuncia la sentenza: "Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano" e, rivolgendosi a Claretta che si aggrappava all'amante: "Togliti di lì se non vuoi morire anche tu". Tenta di procedere nell'esecuzione ma il suo mitra si inceppa; Lampredi si avvicina, estrae la sua pistola, ma anche da questa il colpo non parte, chiama allora Moretti che, di corsa, gli porta il suo mitra. Con tale arma il "colonnello Valerio" scarica una raffica mortale di cinque colpi sull'ex capo del fascismo. La Petacci, postasi sulla traiettoria del mitra, è colpita e uccisa anch'ella. Viene poi inferto un colpo di grazia al cuore di Mussolini con la pistola[nota 16][nota 17]. Sul luogo dell'esecuzione furono poi rinvenuti proiettili calibro 7,65, compatibili con quelli del mitra francese del Moretti[nota 17]. Sono le ore 16:10 del giorno 28 aprile 1945.
L'edizione locale del l'Unità, il giorno seguente, riporta il fatto con questo titolo a tutta pagina: "Mussolini e i suoi accoliti giustiziati dai patrioti nel nome del popolo"[58]; mentre l'edizione nazionale del 1º maggio riporta in prima pagina un'intervista col partigiano - di cui non viene fatto il nome - che "ha giustiziato il Duce", intitolata: "Da una distanza di 3 passi sparai 5 colpi a Mussolini".
Walter Audisio
Walter Audisio era al tempo ufficiale addetto al Comando generale delle Brigate d'assalto Garibaldi e a quello del CVL. Essendo noto solo negli ambienti di militanza e non avendo mai dato modo di parlare di sé, non fu inizialmente identificato come l'uccisore di Mussolini: le cronache infatti, riferivano che l'ex duce era stato fucilato dal "colonnello Valerio", senza conoscerne l'esatta identità. La sua figura emerse direttamente, con riferimento a questi fatti, solo nel marzo 1947, quando il quotidiano l'Unità, organo del PCI, di cui Audisio fu poi deputato, diede notizia del suo coinvolgimento.
Nel volume "In nome del popolo italiano", uscito postumo, Audisio sostenne che le decisioni prese nel primo pomeriggio del 28 aprile a Dongo, nell'incontro con il comandante della 52ª Brigata, Bellini delle Stelle, fossero equivalenti a una sentenza emessa da un organismo regolarmente costituito ai sensi dell'art. 15 del documento del CLNAI sulla costituzione dei tribunali di guerra[59]. Non tutti sono d'accordo con questa interpretazione in quanto, nell'occasione, mancava la presenza di un magistrato e di un commissario di guerra[60]. Dell'intera questione si occupò anche la magistratura penale ordinaria, investita dal giudice civile, cui si erano rivolti i familiari dei Petacci e di Pietro Calistri per risarcimento danni. Nei confronti di Audisio, all'epoca parlamentare, l'apposita Giunta concesse l'autorizzazione a procedere. Il processo si chiuse definitivamente il 7 luglio 1967, quando il giudice istruttore assolse il "colonnello Valerio" dall'accusa di omicidio volontario pluriaggravato, appropriazione indebita e vilipendio di cadavere, perché i fatti erano avvenuti nel corso di un'azione di guerra partigiana per la necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel periodo della occupazione nemica e come tali non furono ritenuti punibili[61].
Contatti segreti tra il duce ed emissari britannici erano avvenuti a Porto Ceresio (VA), presso il confine svizzero, il 21 settembre 1944 e il 21 gennaio 1945[62][63]; inoltre, il testo delle intercettazioni telefoniche effettuate dai servizi segreti tedeschi a Salò, sulle conversazioni di Mussolini[64], suggeriscono l'esistenza di possibili accordi segreti e di uno scambio di lettere tra il dittatore italiano e il Primo ministro inglese Winston Churchill, anche se è ancora aleatorio definire il contenuto di tale carteggio. Il 27 aprile 1945, al momento della sua cattura, secondo le testimonianze di coloro che hanno dichiarato di averle ispezionate in quei giorni (partigiani, funzionari, ecc.) Mussolini aveva con sé una borsa piena di documenti[nota 9] contenente, tra l'altro, parte della sua corrispondenza con Churchill[65][66], ma di cui non è stata accertata la datazione. Nell'immediato dopoguerra, Churchill e i servizi segreti britannici, peraltro, si sarebbero mossi per recuperare tutte le copie di tale carteggio[67].
Alla scomparsa successiva all'arresto di Mussolini di tali documenti particolarmente segreti, divenuti noti come il "carteggio Churchill-Mussolini", si ricollegherebbe una versione sull'uccisione del capo del fascismo di cui al memoriale dell'ex comandante della divisione partigiana formata dalla 111ª, 112ª e 113ª Brigata Garibaldi, Bruno Giovanni Lonati "Giacomo"[68]. In tale pubblicazione, uscita nell'autunno 1994 quasi cinquant'anni dopo i fatti, l'autore scrive di essere stato l'autore dell'uccisione di Mussolini, il 28 aprile 1945, poco dopo le ore 11, in una stradina laterale di fronte casa De Maria, a Bonzanigo di Mezzegra, nell'ambito di una missione segreta diretta da un agente inglese. Lo scopo della missione sarebbe stato quello di impedire la diffusione del contenuto del carteggio, recuperandolo e sopprimendo Mussolini e Claretta Petacci, essendo quest'ultima perfettamente informata sull'esistenza di tali rapporti.
In base a tale versione dei fatti, Lonati sarebbe stato contattato da un agente inglese il giorno precedente a Milano alle ore 16 e, per lo svolgimento della missione, avrebbe costituito una squadra composta da altri tre partigiani. Il “commando” sarebbe stato messo a conoscenza del luogo esatto ove si trovavano i prigionieri, intorno alle ore otto del mattino del giorno 28, grazie a un altro agente, detto "L'alpino", posizionato a Tremezzo. Dopo una sparatoria per superare un posto di blocco nei pressi di Argegno, ove uno dei tre partigiani del “commando” avrebbe perso la vita, la squadra sarebbe giunta a Bonzanigo e avrebbe avuto facilmente ragione dei guardiani della coppia. L'esecuzione sarebbe stata effettuata con mitra Sten. Il carteggio Churchill-Mussolini non poté essere recuperato, ma, dopo aver effettuato alcune foto ai cadaveri, l'agente inglese avrebbe concordato il silenzio di Lonati e dei due partigiani superstiti per altri cinquant'anni. Per tale motivo Lonati avrebbe scritto il suo memoriale solo nel 1994. Nel frattempo, nel 1982, Lonati si sarebbe recato dal console inglese a Milano, il quale gli avrebbe anche mostrato le foto scattate a suo tempo dall'agente segreto “John” e avrebbe approvato il testo di una dichiarazione[nota 19] da spedire a Lonati allo scadere dei cinquant'anni, a conferma di tale versione dei fatti.[69]
Questa ricostruzione è avvalorata dalle seguenti circostanze:
È documentato da registrazioni telefoniche e dalla corrispondenza intercorsa tra Mussolini e la Petacci, che quest'ultima era effettivamente al corrente dei contatti tra Churchill e il capo del fascismo e del carteggio segreto[72].
È stata individuata la presenza in loco, ai primi di maggio del 1945, di un misterioso agente in uniforme da alpino, sicuramente in contatto con spie inglesi e probabilmente anche con la partigiana Giuseppina Tuissi "Gianna"[73], una delle poche persone a conoscenza della prigione di Mussolini e della Petacci, prima dell'esecuzione.
È stato effettivamente testimoniato il verificarsi di una sparatoria con morti tra un posto di blocco di partigiani e una macchina, ad Argegno, la mattina del 28 aprile[74].
L'orario antimeridiano dell'uccisione, secondo la versione Lonati, è coerente con la circostanza, rilevata in sede di autopsia, che lo stomaco di Mussolini fosse privo di resti di cibo[75].
La testimonianza di Dorina Mazzola, che ha dichiarato che Mussolini e la Petacci furono uccisi a Bonzanigo e non a Giulino di Mezzegra in orario antimeridiano del 28 aprile 1945 è abbastanza coerente, anche se non coincide perfettamente, con quanto affermato da Lonati. La Mazzola ricordava anche un uomo che aveva a tracolla “una lussuosa macchina fotografica”[76].
Luigi Longo, comandante in capo di tutte le brigate Garibaldi, secondo Tompkins, sarebbe giunto sul posto subito dopo la duplice uccisione, avrebbe architettato una “finta fucilazione” e la versione dell'uccisione “per errore” della Petacci, per poi legare al segreto per cinquant'anni tutti i partigiani presenti[77]. A tal proposito non si può non tener conto della ricostruzione fornita nel 1993 da Urbano Lazzaro, il partigiano “Bill”, vice commissario politico della colonna partigiana autrice della cattura, nella quale si dichiara che il personaggio presentatosi a Dongo il 28 aprile 1945, con il nome di battaglia di "Colonnello Valerio" fosse proprio Luigi Longo e non Walter Audisio, come comunemente si sostiene[nota 20].
La versione di Bruno Lonati è tuttavia contraddetta, oltre che dalla versione storica di cui è fatto cenno in premessa, anche da altri elementi:
Dall'autopsia effettuata a Milano il 30 aprile 1945, dal prof. Caio Mario Cattabeni, che ha rilevato almeno sette fori di entrata di proiettili sul corpo di Benito Mussolini[75], mentre Lonati ha affermato di aver sparato non più di quattro o cinque colpi[78].
Dagli ulteriori esami effettuati dal prof. Pierluigi Baima Bollone sulle fotografie dei cadaveri sospesi al traliccio di Piazzale Loreto, che attesterebbero non solo l'esistenza di una raffica di mitra sui due corpi, ma anche l'effettuazione del colpo di grazia a mezzo pistola[79].
Dal rilevamento di due proiettili da pistola, 9 corto, nel corpo di Claretta Petacci, nel corso della riesumazione effettuata il 12 aprile 1947[nota 17], incompatibile con i proiettili del mitra Sten calibro 9 Parabellum, che il Lonati asserisce fosse imbracciato dall'esecutore dell'omicidio[78].
Dalla circostanza che, in realtà, i partigiani incaricati a sorvegliare Mussolini e la Petacci, in casa De Maria furono soltanto due ("Lino" e "Sandrino"), mentre invece Lonati racconta che il suo "commando" ne avrebbe immobilizzati tre, prima di effettuare la duplice uccisione;
Dal parere dell'anatomopatologo Luigi Baima Bollone che non ritiene decisiva la circostanza della mancanza di cibo nello stomaco di Mussolini, in rapporto alla determinazione dell'orario dell'esecuzione[nota 17].
Dal silenzio dell'ambasciata britannica più volte interessata dallo stesso Lonati per la conferma della sua versione, una volta scaduti i cinquant'anni dai fatti.
Dal rifiuto di rilasciare dichiarazioni a suo favore, da parte dell'unico partigiano del "commando", ancora vivente all'epoca della trasmissione trasmessa dal canale televisivo "Rai Tre" nel programma "Enigma", del 31 gennaio 2003.
Dalla mancata conferma della “macchina della verità”, cui si è sottoposto il Lonati stesso nel corso della trasmissione suddetta.
Diverse versioni
Oltre alla versione storica e all'"ipotesi inglese", sono sorte, negli anni, differenti versioni della duplice uccisione.
Il 22 ottobre 1945, ancor prima che si fosse formata la "versione storica" dei fatti, il partigiano Guglielmo Cantoni "Sandrino", uno dei due militanti che il 28 aprile 1945 avevano piantonato Mussolini e la Petacci in casa De Maria, rilasciava un'intervista al Corriere d'Informazione. "Sandrino" dichiarava alla stampa di aver seguito a piedi la squadra degli esecutori e delle vittime della fucilazione e di esser giunto nei pressi di Villa Belmonte in tempo per vedere "Valerio" sparare un paio di colpi di pistola contro l'ex duce, il quale era rimasto inaspettatamente in piedi; la raffica di mitra che, secondo l'intervistato, avrebbe investito sia Mussolini sia la Petacci, sarebbe stata sparata da Michele Moretti, intervenuto subito per risolvere l'impasse. Successivamente lo stesso "Valerio" avrebbe sparato altri due colpi di pistola sul corpo dell'uomo, che si muoveva ancora[46].
Altre versioni alternative sono frutto dell'attestazione del professor Cattabeni, in sede di necroscopia del 30 aprile 1945, relativa all'assenza di residui di cibo nello stomaco di Mussolini[75]; da ciò la deduzione che l'esecuzione si sarebbe verificata in orario antimeridiano e l'ipotesi che poco dopo le ore 16:00 del 28 aprile si sarebbe svolta una “finta fucilazione” di due cadaveri. Il primo studioso a delineare una simile tesi è stato Franco Bandini, nel 1978[80].
Nel 1993 lo storico Alessandro Zanella sostenne che la duplice uccisione fosse avvenuta intorno alle ore 5:30 del 28 aprile, all'interno o nei paraggi di casa De Maria, per opera di Luigi Canali "Neri", Michele Moretti "Gatti" e Giuseppe Frangi "Lino"[81]. Quest'ultima versione si avvale di uno studio prodotto dal dr. Aldo Alessiani, medico giudiziario della magistratura di Roma, nel quale si attesta, in base all'esame delle foto scattate dalle ore 11:00 alle 14:00 circa del 29 aprile sui cadaveri appesi al traliccio di Piazzale Loreto, che Mussolini e la Petacci fossero morti da circa trentasei ore, e cioè ben prima delle ore 16:00 del 28 aprile 1945[82]. Anche la cosiddetta “pista inglese”, di cui tratta la precedente sezione, presuppone un'esecuzione in orario antimeridiano, anche se intorno alle 11:00.
Nel 2005 Pierluigi Baima Bollone, ordinario di Medicina legale nell'Università di Torino, effettuò un riesame della necroscopia del 1945 sul cadavere dell'ex duce e uno studio computerizzato sulle fotografie e sulle riprese cinematografiche dei corpi sospesi al traliccio di Piazzale Loreto e sul tavolo dell'obitorio di Milano, sulle armi impiegate e i bossoli rinvenuti, nonché sulle cartelle cliniche di Mussolini in vita.
Tale indagine ha condotto l'anatomopatologo torinese ad affermare che la circostanza della mancanza di cibo nello stomaco di Mussolini non sia determinante in rapporto alla individuazione dell'orario dell'uccisione, in quanto risulta senza ombra di dubbio che il capo del fascismo fosse sofferente di ulcera e osservasse da anni una dieta tale da permettere al suo stomaco di svuotarsi del cibo in un paio d'ore circa. Inoltre il docente universitario smentisce lo studio del dottor Alessiani, sostenendo che, al momento dello scatto delle foto e delle riprese in Piazzale Loreto, la rigidità del corpo dell'ex duce fosse ancora nella fase iniziale, a dimostrazione di un orario del decesso non anteriore alle 16:00-16:30 del giorno precedente, coincidente con quello del racconto di Walter Audisio.
Inoltre, sulla base del posizionamento dei fori di entrata e di uscita nei due cadaveri, rilevata in base alle foto delle salme e alla necroscopia Cattabeni, il professor Baima Bollone riterrebbe logico presumere che “l'azione determinante i due decessi sia stata effettuata da due tiratori, dei quali il primo posto frontalmente al bersaglio costituito dalla Petacci e da Mussolini, affiancati e leggermente sopravanzatisi l'una all'altro, e il secondo lateralmente”. Quest'ultima asserzione, pur non entrando nel merito dell'identificazione dei due tiratori, sembra avvalorare la meccanica della vicenda riportata nelle dichiarazioni del partigiano "Sandrino" al Corriere d'Informazione nel 1945[83].
Nel 2009 i ricercatori Cavalleri, Giannantoni e Cereghino effettuarono un attento esame dei documenti dei servizi segreti americani degli anni 1945 e 1946, desecretati dall'amministrazione Clinton. Dall'esame dei tre ricercatori sono emersi due rapporti segreti dell'agente dell'OSS Valerian Lada-Mokarski, il primo datato ai primi di maggio del 1945 e il secondo il 30 maggio 1945. L'agente americano, dopo aver ascoltato il resoconto di alcuni "testimoni oculari"[nota 21], indica esattamente orario e luogo della fucilazione (poco dopo le ore 16:00 del 28 aprile 1945, davanti a Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra), esattamente coincidenti con quelli derivati dalla versione storica. I due rapporti, peraltro, non sono perfettamente chiari per quanto riguarda l'identificazione degli autori.
Secondo il rapporto del 30 maggio - più esauriente del precedente - la fucilazione sarebbe stata condotta da tre uomini: un "capo partigiano" (che gli autori della ricerca hanno identificato in Aldo Lampredi), un uomo in vestito civile (identificato dall'agente OSS nel "colonnello Valerio") e un uomo in divisa da partigiano (Michele Moretti). I colpi sparati dal "civile", armato di revolver, avrebbero raggiunto obliquamente Mussolini sulla schiena[nota 22] e, subito dopo, l'uomo in divisa da partigiano gli avrebbe sparato direttamente al petto con un mitra. Poi sarebbe stata la volta della Petacci, raggiunta da diversi colpi al petto. Il precedente rapporto dei primi di maggio, tuttavia, non descrive il "colonnello Valerio" come indossante un vestito civile, ma una divisa da partigiano color mattone con i gradi di colonnello sulla bustina. Ciò è conforme con tutte le descrizioni di Audisio-"Valerio" comunemente fornite dai testimoni.
Il rapporto del 30 maggio, inoltre, conclude che, in un secondo momento, sarebbe intervenuto nell'esecuzione un partigiano locale (identificato in Luigi Canali, accreditato dall'agente statunitense come uno dei suoi confidenti), il quale, dopo esser stato fatto avvicinare dal "capo partigiano", avrebbe scaricato due ultimi colpi con la sua pistola sul corpo del duce, perché ancora vivo[84]. L'introduzione di un terzo "tiratore" nella vicenda contrasta con la meccanica dell'azione emersa dai rilievi del professor Baima Bollone[83].
Infine, nel 2012, il quotidiano Libero riportò alcune rivelazioni che tale Giuseppe Turconi, dello stesso paese di Giuseppe Frangi, “Lino”, uno dei due guardiani di Mussolini in casa De Maria, avrebbe avuto nel 1945 da Lia De Maria e le analoghe confidenze di Ettore Manzi, comandante della stazione dei carabinieri di Dongo, a Elena Curti, figlia naturale di Mussolini, intorno alla fine degli anni cinquanta. Manzi e la De Maria avrebbero sostenuto che il duce, mentre era in stato di prigionia a Bonzanigo, aveva ingerito del cianuro tramite una capsula incastrata sotto un dente. Secondo "Libero", il partigiano Frangi potrebbe aver finito il rantolante Mussolini. La Petacci sarebbe stata uccisa in un secondo momento in un prato sottostante la chiesa di Mezzegra. "Libero", tuttavia, sottolinea la contraddizione tra il timore di Mussolini di essere avvelenato con il cibo e il suo supposto suicidio tramite il veleno.[85][86]
Ipotesi alternative sull'identità di "Valerio"
Alcuni autori[87][88] hanno identificato la figura del "colonnello Valerio" con Luigi Longo "Gallo", comandante generale delle Brigate Garibaldi e futuro segretario nazionale del PCI. In realtà la presenza di Longo a Mezzegra al momento della fucilazione di Mussolini, avvenuta intorno alle ore 16:00, deve escludersi, dato che, come è confermato dalle numerose fotografie dell'evento che lo ritraggono[89][90], nel corso del pomeriggio del 28 aprile 1945 il medesimo era presente in Piazza Duomo a Milano alla manifestazione conclusiva della grande sfilata, partita alle ore 15:00, dei garibaldini della Valsesia e della Valdossola guidati da Cino Moscatelli[91]. Nel caso che Mussolini fosse stato ucciso la mattina attorno alle 9:00, Longo potrebbe essere arrivato a Milano in tempo per incontrare Moscatelli nel pomeriggio.
La sostenibilità dell'identificazione di "Valerio" con Longo, pertanto, è possibile solo anticipando la fucilazione nella tarda mattinata del 28 aprile e introducendo l'ulteriore tesi di una seconda fucilazione dei cadaveri nel pomeriggio; anche in tal caso, inoltre, non sarebbe chiara l'identità dell'autore della seconda fucilazione delle 16:00-16:30 e, soprattutto, di colui che, tra le 17:00 e le 18:00 del pomeriggio medesimo si è ripresentato a Dongo, come "colonnello Valerio", per fucilare i quindici prigionieri catturati insieme con l'ex duce e alla Petacci. Né si comprende per quale motivo il partigiano Urbano Lazzaro "Bill", colui che arrestò Mussolini il pomeriggio del 27 aprile, si sia pronunciato a favore dell'identificazione di "Valerio" con Longo soltanto a partire dal 1993[92] e non abbia testimoniato ciò al processo del 1957, di cui è cenno in premessa.
All'udienza del 24 maggio 1957, inoltre, i componenti del CLN Oscar Sforni e Cosimo De Angelis hanno confermato che a Como, nella tarda mattinata del 28 aprile 1945, un comandante partigiano si era presentato come "colonnello Valerio", e che poi lo seguirono a Dongo, dove lo raggiunsero intorno alle 14:00-14:10[93]. Anche anticipando la fucilazione di Mussolini - dunque - nella tarda mattinata del 28 aprile, il "colonnello Valerio" non poteva trovarsi a Mezzegra.
Nell'intervista al Corriere d'Informazione del 22 ottobre 1945, il partigiano Guglielmo Cantoni "Sandrino" dichiarò di aver visto il "colonnello Valerio" sparare a Benito Mussolini con una pistola, senza rivelarne l'identità[46]. È appurato, peraltro, che, al momento dell'esecuzione, il possessore di un'arma simile – ed esattamente una pistola Beretta modello 1934, calibro 9 mm[nota 14] fosse Aldo Lampredi e non Walter Audisio, che invece imbracciava un mitra Thompson[55].
Anche il rapporto segreto, datato 30 maggio 1945, dell'agente dell'OSS Valerian Lada-Mokarski sembrerebbe indicare il "colonnello Valerio" nella persona di Aldo Lampredi, raffigurandolo in un uomo in vestito civile, armato di revolver. Aldo Lampredi, infatti – come riferiscono concordemente le testimonianze raccolte a Milano, a Como e a Dongo - il 28 aprile 1945 indossava un impermeabile bianco, mentre Walter Audisio aveva indosso una divisa da partigiano color cachi o rosso-mattone con i gradi di colonnello.
L'ipotesi che a uccidere Mussolini sia stato Aldo Lampredi e non Walter Audisio è stata addotta nel 1997 da Massimo Caprara nel volume “Quando le Botteghe erano oscure”, pur senza citare il nome di battaglia dell'autore dell'esecuzione. Caprara, già segretario particolare di Palmiro Togliatti e in seguito uscito dal PCI per fondare il gruppo del “Manifesto”, dichiara di aver raccolto, in proposito, le confidenze dello stesso Togliatti e di Celeste Negarville, all'epoca direttore de l'Unità. A domanda, sembra che Togliatti abbia risposto al suo segretario: «No, non è lui (Audisio, n.d.r.). Abbiamo deciso di coprire l'autore dell'esecuzione di Mussolini. L'uomo che ha sparato è Lampredi»[94].
Successivamente Negarville avrebbe confermato l'attribuzione dell'esecuzione a Lampredi, aggiungendo anche quelli che sarebbero stati i retroscena dell'insabbiamento: Togliatti «si premurò d'una cosa soprattutto: proteggere il funzionario kominternista che è Lampredi. Non solo sottraendolo alla curiosità della gente, ma salvandolo da una auto-esaltazione che avrebbe potuto travolgerlo: sentirsi all'improvviso il vendicatore-eroe, dopo una vita grigia e ingrata. Lui ha sparato a Mussolini. Con la Petacci non c'entra. Si limitò a prelevare Mussolini da casa De Maria e a portarlo con lo stivale rotto fino al cancello di Villa Belmonte. Queste cose le riferì a Luigi Longo il responsabile di partito per tutta l'operazione: Dante Gorreri»[95].
Dopo la morte
Dopo la fucilazione del Duce e della Petacci a Giulino, i partigiani "Lino" (Giuseppe Frangi) e "Sandrino" (Guglielmo Cantoni) rimasero a guardia dei corpi esanimi davanti al cancello di Villa Belmonte, mentre Audisio partì per Dongo, dove arrivò verso le ore 17:00 del 28 aprile, per dirigere la fucilazione degli altri gerarchi fascisti, che nel frattempo erano stati radunati nella piazza comunale lungolago davanti al municipio di Palazzo Manzi (la piazza oggi è dedicata al partigiano Giulio Paracchini).
I nominativi dei condannati erano già stati indicati da "Valerio" stesso prima di partire per la Tremezzina, osservando la lista dei prigionieri italiani catturati dalla 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici", e si trattava di:
Ad essi va aggiunto anche Marcello Petacci, il fratello di Claretta, che al momento dell'arresto si spacciava per un console spagnolo. Lampredi, che conosceva il castigliano, a differenza di Audisio che non andò mai in Spagna perché confinato a Ventotene[nota 23], aveva smascherato subito il millantatore e, scambiandolo per Vittorio Mussolini, figlio del Duce, aveva ordinato la sua fucilazione immediata. Urbano Lazzaro "Bill", scoprendo finalmente la sua vera identità, l'aveva però sospesa.
L'appena nominato sindaco di Dongo, l'avvocato Giuseppe Rubini, figlio del politico Giulio Rubini, cercò di porre il veto opponendosi all'esecuzione ma, non riuscendo a ottenere risposta, ritirò dalla finestra del municipio la bandiera italiana esposta, e si rinchiuse in casa[96].
I giustiziandi furono quindi allineati contro la ringhiera metallica rivolta verso il Lago, con il viso verso la riva e le spalle verso il plotone d'esecuzione; viene respinta la richiesta di Barracu di non essere fucilato alla schiena. L'esecuzione fu comandata da Alfredo Mordini (nome di battaglia: "Riccardo"), già combattente garibaldino nella guerra civile spagnola[97]. Essi, dopo aver ricevuto una comune assoluzione da padre Ferrari Accursio del vicino santuario francescano "Madonna delle lacrime", a cui "Valerio" concesse tre minuti per fornire i conforti religiosi ai condannati, furono giustiziati alle ore 17:48 (testimonianza di Rubini).
Il numero dei fucilati eguagliò quello dei partigiani che il 10 agosto 1944, per rappresaglia, i tedeschi fecero fucilare dai fascisti ed esporre al pubblico in Piazzale Loreto a Milano; ciò dimostrerebbe l'intenzione di voler vendicare quella strage (anche se in realtà, con Mussolini, Clara e Marcello Petacci, gli uccisi furono 18). Terminata la fucilazione ci si accorse che non tutti i gerarchi erano morti e perciò il plotone riprese a sparare disordinatamente sui corpi a terra per due minuti circa; quindi, ristabilito l'ordine, furono inflitti i colpi di grazia[98]. La fucilazione fu ripresa dal fotografo dilettante Luca Schenini, commerciante di Dongo, e il filmato fu sequestrato dallo stesso Audisio.
Marcello Petacci fu ucciso dopo gli altri perché i gerarchi non lo consideravano dei loro. Anzi, al momento dell'allineamento, lo insultarono dicendo che era un "ruffiano"[nota 24] e chiesero un'esecuzione separata, richiesta che venne accettata. Arrivato il suo turno, però, riuscì a fuggire e a gettarsi nelle fredde acque del lago dove venne raggiunto da una pioggia di proiettili che lo finirono.
Traversie delle salme
Piazzale Loreto
Sempre a Dongo, i 15 cadaveri dei gerarchi fascisti fucilati, più il corpo di Marcello Petacci, furono tutti caricati su un camion; sopra di loro fu steso un telo, su cui siederanno i partigiani durante il viaggio. Il veicolo partì alla volta di Milano verso le 18:00, fermandosi prima ad Azzano-Giulino per recuperare i corpi di Mussolini e della Petacci, che nel frattempo furono lasciati sotto la pioggia[99]. Durante il viaggio di ritorno, la colonna dei partigiani fu costretta a fermarsi in diversi posti di blocco di altre brigate; in particolare a Milano, in via Fabio Filzi, all'altezza dello stabilimento della Pirelli, durante un controllo operato da una formazione della divisione "Ticino", sorsero momenti di tensione quando i partigiani a bordo del camion si rifiutarono di mostrare i corpi trasportati. Le due formazioni armate si fronteggiarono sino all'intervento del comando generale, che permise il proseguimento della colonna alla vicina destinazione finale.
Alle 3:40 di domenica 29 aprile la colonna giunse in piazzale Loreto, meta che secondo Walter Audisio non fu casuale o improvvisata, ma meditata[100] per il suo valore simbolico. Qui Valerio decise di scaricare i cadaveri a terra, proprio dove le vittime della strage del 10 agosto 1944 furono abbandonate, in custodia ai militi fascisti della Muti, che li avevano dileggiati e lasciati esposti al sole per l'intera giornata, impedendo ai familiari di portarli via.
Verso le 7 del mattino, mentre i partigiani lasciati di guardia alle salme ancora dormivano, alcuni passanti si accorsero dei cadaveri. Complice un passaparola che in poco tempo attraversò tutta Milano, la piazza si riempì velocemente. Non era stata prevista alcuna misura di contenimento: nella calca le prime file di folla vennero spinte verso i cadaveri, calpestandoli e sfigurandoli. Molti insultavano, dileggiavano, sputavano e prendevano a calci i cadaveri. Una donna sparò al cadavere di Mussolini cinque colpi di pistola per vendicare i propri cinque figli morti in guerra[101][nota 25]. Mentre sui cadaveri venivano gettati ortaggi, a Mussolini, per dileggio, venne messo in mano un gagliardetto fascista. Qualcuno orinò sul cadavere della Petacci.
Alle 11 la situazione non era più governabile neanche con scariche di mitra. Una squadra di Vigili del Fuoco giunta con un'autobotte lavò abbondantemente i cadaveri imbrattati di sangue, sputi, orina e ortaggi.
Arrivarono sul luogo anche numerosi fotografi e, nel corso della mattinata, arrivò anche una pattuglia di soldati americani assieme a una troupe di cineoperatori militari che filmò la scena, che successivamente sarà inserita in uno dei combat film prodotti nel corso del conflitto; un altro filmato venne girato da Carlo Nebbiolo, presente sul luogo assieme al fotografo Fedele Toscani (padre di Oliviero) dell'agenzia Publifoto, la pellicola del suo filmato fu sequestrata dalle truppe alleate e restituita in seguito con vistosi tagli, tra cui l'eliminazione della sequenza sulla fucilazione di Starace[104]. Le numerose fotografie scattate in quelle ore animarono, nei giorni seguenti, un fiorente mercato, venendo vendute come un ricercato "souvenir di un momento vissuto", bloccato dopo due settimane dal nuovo prefetto cittadino che ordinò l'immediato sequestro delle fotografie dalle cartolerie e la loro rimozione da ogni luogo pubblico[105].
Verso mezzogiorno, con una camionetta, venne condotto sul luogo anche Achille Starace, ex segretario generale del Partito Nazionale Fascista, arrestato per le vie di Milano in zona ticinese, giudicato in un'aula del vicino Politecnico e fucilato da un plotone improvvisato di partigiani[106] alla schiena, sul marciapiede a lato del distributore ove erano stati appesi gli altri cadaveri.
Nel primo pomeriggio una squadra di partigiani del distaccamento "Canevari" della brigata "Crespi", su ordine del comando, entrò in piazza e rimosse i cadaveri[107] trasportandoli nel vicino obitorio di Via Ponzio.
In serata, il CLNAI riunito emanò un comunicato con il quale si assumeva la responsabilità dell'esecuzione di Mussolini quale conclusione necessaria di una lotta insurrezionale. La massima istituzione resistenziale affermava la volontà di rompere con il fascismo, segnando la fine di un periodo storico di vergogne e di delitti ed inaugurando l'avvento di una nuova Italia, fondata sull'alleanza delle forze che avevano preso parte alla lotta contro la dittatura[108].
La scena sarà così descritta dal poeta Ezra Pound, sostenitore del fascismo, in una sua lirica:
«L'enorme tragedia del sogno sulle spalle curve del/ contadino/ Manes! Manes fu conciato e impagliato / Così Ben e la Clara a Milano / per i calcagni a Milano / Che i vermi mangiassero il torello morto»
(Cantos, LXXIV, sez. Canti pisani)
L'autopsia
Il giorno seguente, alle ore 7:30, presso il civico obitorio dell'Istituto di medicina legale dell'Università di Milano in via Ponzio, il professor Caio Mario Cattabeni[nota 28], sotto la sorveglianza del generale medico "Guido"[nota 29], effettuò l'autopsia sul solo corpo di Mussolini[nota 30]. Il riscontro diagnostico evidenziò sul cadavere sette fori di proiettile in entrata e sette fori in uscita sicuramente prodotti in vita e sei fori successivi alla morte e individuò come causa mortis la recisione dell'aorta da parte di un proiettile. L'autopsia venne eseguita, scrisse Cattabeni, "in condizioni di tempo e di luogo del tutto eccezionali" entro "una sala anatomica dove facevano irruzione ogni tanto, per l'assenza di un servizio armato d'ordine pubblico, giornalisti, partigiani e popolo".
Prima e dopo l'autopsia furono scattate numerose fotografie, sia mettendo macabramente in posa i cadaveri di Mussolini e della Petacci abbracciati, sia dell'équipe forense a fianco del cadavere, immagini del cadavere svestito col torace ricucito a fine autopsia e infine dei corpi deposti entro le casse di legno usate come bare.
Qualche giorno dopo l'autopsia, il 4 maggio, le autorità militari alleate richiesero al CLN Alta Italia, a titolo di favore, un campione di tessuto cerebrale del defunto da inviare a Wilfred Overholser, direttore dell'ospedale psichiatrico St. Elizabeth di Washington, garantendo che verrà utilizzato per scopi scientifici e i risultati della sua analisi non saranno soggetti a pubblicazione[nota 31]: lo scopo di medical intelligence escludente pubblicazioni sarà ribadito nella ricevuta rilasciata il 24 maggio alla consegna del campione.
Il 9 giugno il colonnello Poletti richiese infine due copie autenticate del referto dell'autopsia da consegnare al console americano a Lugano, incaricato di redigere un rapporto ufficiale sugli ultimi giorni di vita di Mussolini.
Nel novembre 2009 alcuni vetrini istologici con sezioni del cervello vennero posti in vendita su E-bay, con una base d'asta di 15.000 euro, da un collezionista italiano di cimeli storici, che li aveva avuti in dono da un tecnico analista, assistente di Cattabeni, incaricato di preparare i reperti nel maggio 1945[109]. L'offerta di vendita fu ritirata dal sito dopo poche ore, in quanto contraria alla politica del sito che vieta la vendita di materiale organico umano.[110]
La sepoltura di Mussolini
La salma di Mussolini fu seppellita anonima nel cimitero Maggiore di Milano, in data 5 agosto 1945, presso il "Campo 10", successivamente al "Campo 16", tomba numero 7.[111] Il tumulo aveva il numero 384 e sebbene non vi fosse stato apposto alcun nome, proprio per evitare di far identificare il cadavere, ben presto la gente individuò il posto, che divenne meta di molti curiosi e di qualche commosso nostalgico.
La notte tra il 22 aprile e il 23 aprile 1946, all'approssimarsi del primo anniversario della sua morte, tre fascisti, Mauro Rana, Antonio Parozzi e Domenico Leccisi, facenti parte del Partito Democratico Fascista, ne trafugarono la salma.
In due lettere all'Avanti! e all'Unità il gruppo comunicò che il partito fascista, non avendo ottenuto risposta alle richieste di una sepoltura di Mussolini, aveva deciso di prendere in custodia la salma.
Si scatenò la caccia alla salma, che la voce popolare chiamò il salmone[112].
Si sospettò anche che fosse stata trafugata allo scopo di richiedere un riscatto, quantunque i familiari di Mussolini, i più probabili diretti interessati, erano, ovviamente, di impervia rintracciabilità e comunque non disponevano di agi tali da giustificare l'eventuale estorsione. Il 7 maggio, dopo varie peripezie, i trafugatori decisero di consegnarla ai frati minori dell'Angelicum di Milano nelle mani dei padri Alberto Parini ed Enrico Zucca[112].
La salma rimase nascosta nel convento per qualche tempo, e trasferita tra maggio e luglio presso la Certosa di Pavia[111], fino a che la polizia non venne a sapere tutta la storia dalla fidanzata di un amico di Leccisi. Padre Parini, che inizialmente aveva opposto un labile rifiuto a collaborare adducendo il "segreto confessionale", decise infine di rivelare dove si trovava il corpo solo a patto che gli fosse garantita una sepoltura degna e occulta.
Si arrivò a una soluzione anche grazie all'interessamento di Alcide De Gasperi e del Papa: il 12 agosto 1946 il cadavere venne restituito al questore Vincenzo Agnesina[112], ma si dovette eseguire un ulteriore esame necroscopico per confermare l'identità dei resti[nota 32].
Il 30 agosto 1957, durante il governo Zoli, la cui famiglia era originaria di Predappio, e il cui governo in parlamento abbisognava dell'appoggio esterno dei deputati missini tra cui Leccisi, la salma di Mussolini, segretamente conservata nel convento dei Cappuccini di Cerro Maggiore, venne riconsegnata alla vedova, la quale ne aveva richiesta la restituzione alla famiglia più volte nel corso degli anni[113]. In questa occasione, anche il cervello, che era stato prelevato durante l'autopsia e conservato in formalina nell'Istituto di medicina legale di Milano, venne restituito[114].
Tutti i resti furono seppelliti il 1º settembre 1957 nel cimitero monumentale di San Cassiano in Pennino, vicino a Predappio, dove tuttora si trovano.
Filmografia
La fuga del Duce da Milano, la sua cattura a Dongo e la successiva esecuzione, vengono raccontati nel film del 1974 intitolato Mussolini ultimo atto per la regia di Carlo Lizzani.[115]
Note
Esplicative
^Questa intervista è nota anche come il testamento politico di Mussolini (cfr. Sergio Luzzatto, 1998, pp. 124 e sgg.)
^Si formò una colonna di circa trenta automobili, tre delle quali occupata da militari della gendarmeria tedesca, aperta da quattro motociclisti e scortata da un carro tedesco e da alcune autoblindo della Muti. Sulle automobili i membri del governo quasi al completo, funzionari e personalità fasciste.
^Marino Viganò, Un'analisi accurata della presunta fuga in Svizzera, in Nuova Storia Contemporanea, n. 3, 2001. Le testimonianze sono contraddette dal tenente Birzer, capo della scorta personale del Duce, che aveva ricevuto direttamente da Hitler il compito di non lasciare mai Mussolini: ne risponderà con la vita se ciò dovesse avvenire, secondo il quale a Grandola impedì all'ultimo minuto un tentativo di fuga di Mussolini, la Petacci ed almeno altri due gerarchi che erano quasi riusciti nell'intento di attraversare il confine. Le dichiarazioni di Birzer sono citate nel libro di Silvio Bertoldi I tedeschi in Italia, S&K editori.
^Alla frontiera le autorità svizzere negarono l'entrata ai familiari del Duce, che fecero ritorno a villa Mantero a Como dove erano alloggiati, ed al ministro Guido Buffarini Guidi. In quei giorni altri familiari di Mussolini si trovavano a Como: a villa Mantero erano ospitate anche Gina Ruberti, moglie di Bruno, con la figlia Marina; il figlio Vittorio giunto col padre da Milano si ricongiunse con sua moglie Orsola Buvoli già sfollata a villa Stecchini assieme ai figli Guido ed Adria; Vanni Teodorani, marito di Rosa, figlia di Arnaldo con Orio Ruberti, fratello di Gina, trovarono ospitalità al collegio Gallio il 27 aprile, ove il giorno prima si era già rifugiato Vittorio, e ove rimasero nascosti fino a novembre; le mogli di Vittorio e di Vanni Teodorani, oltre che di Roberto Farinacci, trovarono ospitalità presso l'istituto delle Orsoline; invece Vito, figlio di Arnaldo finì nelle carceri di san Donnino.
^Il quotidiano uscì col nome di Il nuovo Corriere, imposto dai dirigenti partigiani per evidenziare il taglio col passato filo-governativo del giornale
^Della presenza di Mussolini sul camion si erano precedentemente accorti anche il parroco di Musso don Enea Mainetti ed il giovane Fiorenzo Rampoldi, v. Giorgio Cavalleri, op. cit., p. 24.
^abQuesta borsa a quattro scomparti conteneva quattro cartelle, trecentocinquanta documenti riservatissimi, un milione e settecentomila lire in assegni e centosessanta sterline d'oro. Quella stessa sera la borsa di Mussolini fu depositata, insieme a quella del colonnello Casalinuovo, presso la filiale della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde di Domaso dallo stesso Bill, accompagnato dal collaboratore ed interprete, lo svizzero Alois Hofman, e dal partigiano Stefano Tunesi. v. Zanella, p. 378.
^Le disposizioni omettevano però di precisare l'organo che avrebbe dovuto emettere la condanna (v. Pierre Milza, op. cit., p. 119), anche se c'è chi ritiene che comunque la decisione doveva essere subordinata a una sentenza dei tribunali di guerra (v. Gian Franco Venè, La condanna di Mussolini, Fratelli Fabbri, Milano, 1973).
^Giovanni Sardagna "Giovannino", barone di Hohenstein, ex aiutante del generale Raffaele Cadorna, già comandante della divisione corazzata "Ariete" che si era battuta nella difesa di Roma, dopo l'8 settembre 1943 svolgeva funzioni di collegamento fra i comandi del CVL di Como e Lecco.
^Successivamente Alice Canali, sorella del Neri, spiegò così la decisione del fratello: “Lia De Maria era nostra sorella di latte. Avevamo avuto la stessa balia. Mio fratello sapeva di potersi fidare ciecamente di lei e del marito” Garibaldi, p. 163.
^Si tratta di partigiani provenienti dall'Oltrepò Pavese appartenenti alle brigate "Crespi" e "Capettini", giunti a Milano la mattina del 27 aprile. Prima di essere acquartierati nella scuola di Viale Romagna, i partigiani partecipano ad un breve comizio tenuto dal comandante delle brigate lombarde Garibaldi, Pietro Vergani ("Fabio"), in piazzale Loreto, che è poco distante da viale Romagna. I partigiani possiedevano un camion scoperto, che verrà usato per il trasporto del gruppo di "Valerio' a Dongo.Vedi [1]Paolo Murialdi, Prima e dopo la fucilazione di Mussolini, Materiale resistente, ANPI Sezione di Voghera, Aprile 2000
^abBaima Bollone, p. 145. L'arma fu donata da Lampredi al partigiano Alfredo Mordini “Riccardo”, ed è attualmente conservata al Museo storico di Voghera.
^Villa Belmonte dista da casa De Maria circa trecentocinquanta metri.
^Con quale pistola non è specificato, probabilmente con quella di Lampredi rimessa in condizioni di sparare.
^abcdDi certo, un colpo di pistola è inferto anche su Claretta Petacci, in quanto due proiettili, calibro 9 mm corto, compatibili con quelli della pistola del Lampredi, furono rinvenuti nel corpo della donna, nel corso dell'esumazione effettuata il 12 aprile 1947. Baima Bollone, pp. 89 e sgg.
^La didascalia dell'immagine riporta: "The ignominious career of Benito Mussolini comes to a fitting end. Il Duce, executed by Italian Partisans, is shown lying in the mud of Piazza Loreto in Milan with his head resting on the breast of mistress, Clara Petacci." (L'ignominiosa carriera di Benito Mussolini arriva a una degna fine. Il Duce, giustiziato dai partigiani, è mostrato disteso nel fango di piazza Loreto a Milano, con la sua testa reclinata sul petto dell'amante Clara Petacci)
^Riportata in bozza fotografata in: Peter Tompkins, op. cit., Tav. 7
^Urbano Lazzaro, Dongo, mezzo secolo di menzogne, Mondadori, Milano, 1993. Lazzaro, peraltro, non si era pronunciato in tal senso né nel memoriale Dongo: la fine di Mussolini, Mondadori, Milano, 1962, scritto insieme a Pier Luigi Bellini delle Stelle, né al processo di Padova del 1967
^Lada-Mokarski, in particolare, avrebbe raccolto le testimonianze di Giacomo De Maria e dei partigiani Giuseppe Frangi "Lino" e Luigi Canali Cfr: Giorgio Cavalleri, Franco Giannantoni, Mario J. Cerighino, op. cit., pp. 170 e sgg.
^Ciò contrasta con l'autopsia effettuata sul corpo dell'ex-duce dal dr. Cattabeni, il quale ha constatato che i fori d'entrata dei colpi di arma da fuoco che ne hanno determinato la morte furono inferti di fronte e non da retro. Cfr.:Verbale della necroscopia n. 7241, cit.
^Tuttavia, Urbano Lazzaro, in: Dongo: la fine di Mussolini, Mondadori, Milano, 1952, dichiara che la domanda "Habla usted español?" sia stata fatta a Petacci da Valerio.
^Il 18 aprile, Marcello Petacci si era recato in Svizzera per contattare i rappresentanti inglesi e ne era tornato il giorno 24. Per questo era considerato dai fascisti un traditore. v Giorgio Cavalleri, op. cit., p. 145 sgg.
^Secondo alcuni per fare in modo che tutti potessero vedere i cadaveri, secondo altri quasi a voler preservare i più odiati dall'oltraggio della folla. Cfr. Attilio Tamaro, "Due anni di storia, 1943-1945"
^La successiva ristrutturazione della piazza, di vaste dimensioni, ha eliminato il distributore di benzina e oggi non vi è alcun riferimento visibile nel luogo esatto in cui avvenne il fatto.
^L'istituto era diretto dal professor Antonio Cazzaniga che però era assente, venne quindi sostituito dal suo allievo Caio Mario Cattabeni.
^Proprio in base ad un ordine del CNL trasmesso dal professor Pietro Bucalossi, il «partigiano Guido», non fu effettuata l'autopsia sul cadavere di Claretta Petacci. Cfr.: Baima Bollone, p. 214.
^Dell'esame necroscopico è stato redatto un verbale ufficiale portante il nº 7241 firmato dal professor Cattabeni stesso e dai suoi collaboratori dottori Enea Scolari ed Emanuele D'Abundo e un altro verbale non ufficiale redatto e firmato dal medico radiologo Pierluigi Cova presente all'autopsia a titolo personale.
^I medici pubblicarono il seguente comunicato: Riteniamo che il cadavere esaminato sia lo stesso che fu sottoposto ad autopsia il 30 aprile 1945 come quello di Benito Mussolini dai professori Cattabeni, Scolari e D'Abundio e che fu quindi sottoposto ai rilievi antropometrici del professor Antonio Astuti. v. Pierre Milza, op. cit., p. 243.
Bibliografiche
^ Walter Audisio, Missione a Dongo (PDF), in l'Unità, 25 marzo 1947, pp. 1-2 (archiviato dall'url originale il 26 agosto 2014).
^ Walter Audisio, Solo a Como con 13 partigiani (PDF), in l'Unità, 26 marzo 1947, pp. 1-2 (archiviato dall'url originale il 26 agosto 2014).
^ Walter Audisio, La corsa verso Dongo (PDF), in l'Unità, 27 marzo 1947, pp. 1-2 (archiviato dall'url originale il 26 agosto 2014).
^ Walter Audisio, La fucilazione del dittatore (PDF), in l'Unità, 28 marzo 1947, pp. 1-2 (archiviato dall'url originale il 26 agosto 2014).
^ Walter Audisio, Epilogo a Piazzale Loreto (PDF), in l'Unità, 29 marzo 1947, pp. 1-2 (archiviato dall'url originale il 26 agosto 2014).
^Sulla sparizione della prima delle due casse di zinco, avvenuta per questo guasto, v. Howard McGaw Smyth, Secrets of the Fascist Era, Southern Illinois University, Carbondale and Edwardsville, 1975, p. 180.
^Gianfranco Bianchi, Recensione a Il delitto Matteotti tra il Viminale e l'Aventino, Il Politico, marzo 1967, vol. 32, n. 1 (marzo 1967), p. 213.
^R. De Felice, Mussolini il fascista, Torino 1966, p. 601.
^Mauro Canali, Il delitto Matteotti, Camerino, Università degli studi di Camerino, 1996, pp. 573-579, ove sono anche segnalate le lacune nel materiale versato.
^Alcune fonti riferiscono di un incontro in prefettura a Como tra Mussolini e donna Rachele in compagnia della figlia Annamaria. v. Urbano Lazzaro, Dongo mezzo secolo di menzogne, p. 25.
^Pierre Milza, Mussolini, La biblioteca di Repubblica, 1999, p. 91.
«Ecco come esso è narrato, ancora, da Gian Franco Vené: «La sera del 27 giunsero al comando del Cvl, in via del Carmine, diversi messaggi radio inviati dal Quartier generale alleato di Siena. Ciascuno di questi messaggi passava di tavolo in tavolo: "Al Comando generale and Clnai - stop - fateci sapere esatta situazione Mussolini - stop - invieremo aereo per rilevarlo - stop - Quartier generale alleato"» [...] E ancora: "Per Clnai - stop - Comando alleato desidera immediatamente informazioni su presunta locazione Mussolini dico Mussolini - stop se est stato catturato si ordina egli venga trattenuto per immediata consegna al Comando alleato - stop si richiede che voi portiate queste informazioni at formazioni partigiane che avrebbero effettuato cattura assoluta precedenza" [...] L'ufficio operativo al quartier generale delle forze alleate, aveva inviato istruzioni alle 25 squadre dell'Oss (Office of strategic services) già pronte all'azione nei boschi e nelle montagne: "Conforme agli ordini del Quartier generale alleato, è desiderio degli Alleati di catturare vivo Mussolini. Notitificare a questo quartier generale se è stato catturato, e tenerlo sotto protezione fino all'arrivo delle truppe alleate".»
^Peter Tompkins, Dalle carte segrete del Duce, Tropea, Milano, 2001, p. 328
^Giorgio Cavalleri, Franco Giannantoni e Mario J. Cerighino, La fine. Gli ultimi giorni di Benito Mussolini nei documenti dei servizi segreti americani (1945-46), Garzanti, Milano, 2009, p. 69
^abGiorgio Cavalleri, Franco Giannantoni e Mario J. Cerighino, op. cit., pp. 56-57
^Giorgio Cavalleri, Franco Giannantoni e Mario J. Cerighino, op. cit., p. 51
^abcFerruccio Lanfranchi, Parla Sandrino uno dei cinque uomini che presero parte all'esecuzione di Mussolini, in: Corriere d'Informazione, 22-23 ottobre 1945
^Giorgio Cavalleri, Franco Giannantoni e Mario J. Cerighino, op. cit., p. 61
^Roncacci, p. 402. Ai fini di tale decisione, è stata anche l'esibizione, da parte di Audisio, del lasciapassare in lingua inglese, rilasciato dall'agente americano Emilio Daddario. Cfr.: Giorgio Cavalleri, Franco Giannantoni e Mario J. Cerighino, op. cit., pp. 69-70
^Baima Bollone, p. 193. L'arma è attualmente conservata al Museo di Tirana.
^Documenti pubblicati in: Ricciotti Lazzero, Il sacco d'Italia. razzie e stragi tedesche nella Repubblica di Salò, Mondadori, Milano, 1994, e in parte in: Garibaldi, pp. 68 e sgg.
Giorgio Bocca, La repubblica di Mussolini, Milano, Mondadori, 1995, ISBN978-88-04-39972-8.
Edoardo Conti, L'altra faccia dell'Italia nel racconto di Walter Audisio, a cura di Silvia Marcolini, Gruppo Albatros Il Filo, 2020, ISBN978-88-3062-217-3.
Giovanni Dolfin, Con Mussolini nella tragedia. Diario del capo della segreteria particolare del Duce (1943-1944), Garzanti, 1949.
Claudio Pavone (a cura di), Le brigate Garibaldi nella Resistenza: documenti. dicembre 1944 - maggio 1945, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Istituto Gramsci, vol. 3, Feltrinelli, 1979.
Fonti secondarie
Fabio Andriola, Appuntamento sul lago, Milano, SugarCo, 1996, ISBN978-88-7198-022-5.
Pierluigi Baima Bollone, Le ultime ore di Mussolini, Milano, Rusconi, 2021, ISBN978-88-18-03683-1.
Franco Bandini, Le ultime 95 ore di Mussolini, Milano, Sugar, 1959.
Giorgio Cavalleri e Anna Giamminola, Un giorno nella storia 28 aprile 1945, Como, NodoLibri, 1990, ISBN978-88-7185-006-1.
Giorgio Cavalleri, Ombre sul lago. I drammatici eventi del Lario nella primavera-estate 1945, Varese, Arterigere, 2007 [1995], ISBN978-88-89666-21-0.
Giorgio Cavalleri e Franco Giannantoni e Mario J. Cereghino, La fine. Gli ultimi giorni di Benito Mussolini nei documenti dei servizi segreti americani (1945-1946), Milano, Garzanti, 2009, ISBN978-88-11-74092-6.
Roberto Festorazzi, I veleni di Dongo ovvero gli spettri della Resistenza, il Minotauro, 2004, ISBN978-88-8073-086-6.
Franco Giannantoni, "Gianna" e "Neri": vita e morte di due partigiani comunisti : storia di un "tradimento" tra la fucilazione di Mussolini e l'oro di Dongo, Mursia, 1992, ISBN978-88-425-1226-4.
Franco Giannantoni, L'ombra degli americani sulla Resistenza al confine tra Italia e Svizzera, Edizioni Arterigere, 2007, ISBN978-88-89666-16-6.
Bruno Giovanni Lonati, Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta: la verità, Milano, Mursia, 1994, ISBN978-88-425-1761-0.
Vittorio Roncacci, La calma apparente del lago. Como e il Comasco tra guerra e guerra civile 1940-1945, Varese, Macchione, 2003, ISBN978-88-8340-164-0.