Le elezioni politiche in Italia del 1929 per la nomina dei membri della Camera dei Deputati si svolsero il 24 marzo 1929. Gli elettori potevano solo votare SÌ o NO, per approvare o respingere in toto la lista dei deputati.
Con queste elezioni si apre la fase di "normalizzazione" del regime fascista. I deputati non sono più determinati dalla sovranità popolare, ma sono semplice parte dello Stato.[1]
La legge era basata sul suffragio universale maschile, già previsto sin dal 1912. Il diritto di voto per i soli cittadini maschi era però subordinato al rientrare in una delle seguenti categorie:
Erano esclusi dal diritto di voto (voto sospeso) i sottufficiali (tranne i marescialli) e i militari di truppa di esercito, marina e aeronautica.
I valori nella parte sinistra della tabella sono riferiti alle liste delle prefetture al momento della chiusura delle iscrizioni. Dopo i ricorsi, i numeri risultarono leggermente variati (parte destra della tabella) e vennero esclusi i militari.
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Percentuale degli elettori rispetto ai residenti.
I deputati erano scelti tra 1000 designati da enti e associazioni.
800 erano proposti da associazioni sindacali riconosciute e 200 da altri enti e associazioni nazionali.
I 400 deputati erano poi selezionati dal Gran consiglio del fascismo tra i designati da enti e da associazioni; la lista definitiva era sottoposta ad approvazione tramite plebiscito.
La votazione si svolse in forma plebiscitaria. Gli elettori potevano votare SÌ o NO, per approvare o respingere in toto la lista dei deputati.
L'elettore veniva fornito di due schede di uguali dimensioni, bianche all'esterno, recanti all'interno la formula: "Approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio Nazionale del Fascismo?"; nella scheda con il SÌ l'interno era anche corredato da due bande tricolori, in quella con il NO la scheda si presentava bianca.
L'elettore doveva al momento del voto raccogliere entrambe le schede; all'interno della cabina elettorale si trovava una prima urna dove l'elettore lasciava la scheda scartata, per poi consegnare nelle mani degli scrutatori la scheda prescelta, affinché questi si assicurassero che essa fosse "accuratamente sigillata". Questo farraginoso sistema aveva di fatto un effetto inibitorio verso l'elettore, che non poteva avere una certezza assoluta sulla segretezza del voto, proprio a causa di quest'ultimo passaggio, anche se formalmente la legge sembrava garantire il voto segreto.
L'elettore comunque poteva anche annullare la scheda tricolore se non avesse voluto votare a favore.
Nel caso, ovviamente solo teorico, di vittoria dei NO si sarebbero dovute ripetere le elezioni, con l'ammissione di altre liste proposte da enti o associazioni autorizzati dalla legge, con almeno 5000 firmatari aventi diritto al voto (Regio decreto nº 1993 del 2 settembre 1928, in particolare l'art. 88).[2]
Percentuale dei votanti rispetto al numero degli aventi diritto al voto.
I 400 eletti comprendevano:
È disponibile anche una classificazione approssimativa dei deputati eletti per professione.[3]
Il periodico socialista Avanti!, pubblicato all'epoca a Parigi, denunciò diverse irregolarità verificatesi durante le elezioni plebiscitarie, esponendo inoltre almeno due espedienti con cui i fascisti vanificarono la segretezza del voto:
Lo stesso Avanti! mise in dubbio l'attendibilità dei risultati ufficiali divulgati dal governo, esprimendo la convinzione che le cifre in questione fossero inventate e già prestabilite dallo stesso Mussolini.[7] Anche lo storico britannico Denis Mack Smith, nella sua Storia d'Italia dal 1861 al 1997, ritiene «sospette e improbabili», se non addirittura una possibile «invenzione», le cifre ufficiali dei "no" alle elezioni plebiscitarie del 1929 e del 1934, «visto il numero di poliziotti distribuiti sul territorio per reprimere qualsiasi manifestazione di dissenso».[8] Lo storico Giordano Bruno Guerri riporta che vi fu anche chi pensò che «i voti contrari fossero falsi, per far credere alla libertà di voto».[9]
In ogni caso, secondo la stampa di opposizione, si verificarono molte irregolarità, soprattutto nel meridione, dove poteva capitare che i presidenti del seggio votassero per tutti gli iscritti, a prescindere che si fossero presentati o meno al seggio. Secondo l'Avanti! in alcune sezioni le schede gettate nelle urne furono molte di più del numero degli elettori iscritti, ed esse furono eliminate dallo scrutinio o lasciate con la giustificazione che si trattasse di elettori ammessi a votare dalla corte d'appello all'ultimo momento.[10] Lo storico Giorgio Candeloro confermò tale tesi, riportando che «in alcune delle regioni il numero dei votanti superò quello degli iscritti, come avvenne in Basilicata, dove i votanti furono il 103,7 per cento, e in Calabria furono 105,86 per cento».[11]
Le elezioni si svolsero inoltre in un clima intimidatorio. In diversi centri abitati gli elettori furono prelevati dalle loro abitazioni e condotti forzatamente a votare dagli squadristi fascisti, come accadde ad esempio con i cittadini di etnia croata di Pisino.[12] I dipendenti delle fabbriche e delle aziende agricole e commerciali, nonché gli iscritti ai sindacati, furono avvisati dai loro datori di lavoro che in caso di astensione o di voto contrario sarebbero stati licenziati e denunciati alle autorità competenti.[13]
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