Aonio Paleario nacque dal magister, artigiano salernitano, Matteo della Pagliara e da Clara Jannarilli.[1] Fino a diciassette anni studiò sotto un amico di famiglia, il notaio verulano Giovanni Martello,[1] che lo istruì nella grammatica e nei classici latini.
Nel 1520 fu a Roma, per studiare, fino al 1527, nell'Università della Sapienza, letteratura greca, latina e filosofia. Dovette avere per professore di latino il poeta Pierio Valeriano, autore di un De litteratorum infelicitate, per professore di greco Pietro Alcionio e come insegnante di filosofia l'averroistaLudovico Boccadiferro.
Introdotto nell'ambiente romano dallo stesso vescovo di Veroli, Ennio Filonardi,[1] Aonio frequentò le nobili case dei Cesarini, dei Maffei e dei Frangipane, ove ascoltò ed espresse le proprie convinzioni su temi dibattuti come quelli dell'immortalità dell'anima, del libero arbitrio o della lingua letteraria. Un incidente con il cardinale Alessandro Cesarini, che lo cacciò di casa accusandolo di avergli sottratto dalla biblioteca certe note filologiche sulla Storia di Roma di Livio, fu forse decisivo per fargli abbandonare la città nel 1529 e andare a Perugia a visitare il Filonardi,[1] governatore da quello stesso anno della città umbra su incarico di papa Clemente VII.
Il soggiorno a Padova
Il Paleario declina la proposta del Filonardi di un incarico di insegnante di latino nell'Università perugina: diretto a Padova, il 27 ottobre 1530 giunge a Siena dove si trattiene per un anno, ospite della ricca e importante famiglia di Antonio Bellanti. Ma è il prestigioso Studio di Padova, centro della filosofia aristotelica in Italia, che attira gli interessi del giovane che conta di intrattenervisi a lungo: per questo motivo, venduti i beni posseduti a Veroli, nell'autunno del 1531 giunge nella città veneta.
Nel circolo intellettuale patavino era maturata l'iniziativa di tradurre in italiano, a cura dell'allievo del Bembo, Emilio degli Emili, l'Enchiridion militis christiani di Erasmo da Rotterdam, traduzione apparsa nel 1531 a Brescia, dove l'umanista indicava, a soluzione di un'autentica riforma della Chiesa, il ritorno al Vangelo quale unico testo di ispirazione per il cristiano; e alta era la considerazione del Paleario per Erasmo tanto che, subito dopo l'elezione di papa Paolo III, si diffuse la notizia della prossima convocazione di un concilio: Aonio, il 5 dicembre 1534, da Siena, dove era tornato l'anno prima, scrisse a Erasmo una lettera invitandolo a prendere l'iniziativa di un accordo con i teologi tedeschi, nella comune volontà di giungere a una riforma della Chiesa condivisa da tutti i cristiani.
Il Paleario non crede all'utilità di un concilio a cui partecipino solo persone preda «della ricchezza, dell'adulterio, dell'incesto, della corruzione, della superbia, della crudeltà » e che non possono neanche essere considerati cristiani: la soluzione sarebbe un concilio di rappresentanti della Chiesa «in quanto comunione dei santi, assemblea di coloro che conducono una buona vita cristiana».
Tornato a Padova, conclude il suo poemetto De animorum immortalitate, che viene stampato nel 1536 a Lione: dedicato a Ferdinando d'Asburgo, fratello dell'imperatore Carlo V, è accompagnato da una lettera indirizzata a Pier Paolo Vergerio, vescovo di Capodistria e allora ambasciatore pontificio presso Ferdinando, nella quale Aonio insinua il suo desiderio di poter ottenere un impiego nella corte imperiale.
Il poemetto utilizza tanto le sue conoscenze della filosofia stoica e aristotelica che le suggestioni del neoplatonismoficiniano, nell'espressa convinzione che l'anima umana, rivestita di divinità , tenda naturalmente all'immortalità . Scritto in forme lucreziane, non è opera originale nel panorama filosofico umanistico, ma ebbe successo nei circoli intellettuali, non solo italiani, ma anche francesi e spagnoli.
Il ritorno in Toscana
Lasciata Padova, ritorna a Siena nel 1536, dove insegna privatamente e si occupa anche dell'educazione dei figli dell'amico Antonio Bellanti, morto quello stesso anno. Compra una casa a Colle di Val d'Elsa e si sposa l'11 ottobre 1537 con Marietta Guidotti,[1] figlia di una famiglia di piccoli proprietari terrieri; con la dote della moglie e contraendo un forte debito, compra un'altra casa e un terreno nella vicina Cercignano. Nasceranno cinque figli, Aspasia, nel 1538, Sofonisba, nel 1540, Lampridio, così chiamato in ricordo dell'amico umanista, morto da poco, nel 1544, Fedro, nel 1548 e un'altra Sofonisba, così chiamata quando l'altra figlia dallo stesso nome si fa suora nel 1555. La primogenita Aspasia andrà invece sposa a Fulvio di Giuliano da Colle e dal loro matrimonio nascerà Orazio Della Rena.
Nel 1540 viene a predicare a Colle di Val d'Elsa un teologo domenicano, Vittorio da Firenze. Sembra che costui fosse informato che il circolo del Paleario non avesse fama di praticare una sufficiente ortodossia religiosa. Accusò pubblicamente che vi fossero sostenitori delle tesi del defunto domenicano Tommaso de Vio - che a suo tempo aveva sostenuto la possibilità di un accordo con i riformatori tedeschi - i quali avrebbero anche attaccato con un libretto anonimo teologi cattolici della fama di un Giovanni Eck o di un Giovanni Fisher.
La risposta del Paleario a Vittorio da Firenze sarebbe potuta degenerare pericolosamente se non fosse intervenuto lo stesso governo della Repubblica senese a porre termine alla polemica. Ma persistettero i sospetti di luteranesimo, derivati da un'operetta, andata perduta, Della pienezza, satisfazione et sofficienza del sangue di Cristo, dove il Paleario avrebbe negato l'esistenza del Purgatorio, considerata un'invenzione «tratta in gran parte dai pitagorici, dai platonici e dai poeti; con l'affermazione di questa trovata viene annientata la remissione dei peccati, viene fatta grave offesa al sangue del Patto, contro l'attestazione di tutti i profeti, mentre gli apostoli insegnano in maniera molto diversa».
Il primo processo
Accusato d'eresia nel giugno 1542 davanti a un tribunale formato dal vescovo di SienaFrancesco Bandini Piccolomini[1] e da tre teologi, il 12 dicembre, dopo essere stato interrogato sui principi della fede cattolica, fu assolto per insufficienza di prove,[1] grazie all'appoggio del cardinale Jacopo Sadoleto e alla moderata adesione alle tesi riformiste del Piccolomini che, nel Concilio di Trento, sarà sostenitore della giustificazione per la sola fede.
Scrive di non preoccuparsi della minaccia delle punizioni: «non è indecoroso essere battuto con la verga, essere sospeso alla fune, ficcato in un sacco, gettato in pasto alle bestie feroci, bruciato, se con questi supplizi la verità deve essere portata alla luce». E conclude ricordando Bernardino Ochino, il generale dei cappuccini costretto a fuggire dall'Italia per evitare i rigori dell'Inquisizione.
Progetto di riforma
L'anno dopo, il 20 dicembre 1544, alla notizia della convocazione, prevista per il 25 marzo 1545, di un concilio a Trento, scrive da Roma una lettera a Lutero, a Calvino, a Melantone e a Bucero, simile a quella che aveva scritto dieci anni prima a Erasmo, in cui afferma di aver elaborato, insieme ad alcuni "fratelli" - non specificati, ma si pensa almeno a Lelio Torelli e a Mariano Sozzini - un progetto per risolvere i problemi della Chiesa.
Il concilio si aprì a Trento il 13 dicembre 1545 senza la partecipazione dei protestanti – fra loro anche divisi in luterani, calvinisti e zwingliani – segnando la definitiva frattura del mondo cristiano.
Ma non dovette limitarsi a neutre presentazioni di opere classiche, se nella sua Cronica di Lucca Giovanni Sanminiati lo considera responsabile della diffusione del luteranesimo fra i lucchesi, indotti all'eresia «da falzi predicatori e da un maestro primo della scuola della grammatica nominato Laonio, che invece delle buone lettere in che era peritissimo, imprimeva questa falza dottrina».
La posizione dei sospetti di luteranesimo si fa particolarmente difficile in questi anni: non pochi, nel 1555, partiranno alla volta di Ginevra: Paleario, il cui incarico d'insegnante scade alla fine del 1554, non ne chiede il rinnovo e, munito di salvacondotto a causa della guerra tra Firenze e Siena, parte alla volta di Colle di Val d'Elsa per riunirsi con la famiglia.
È datata 15 agosto 1555 la dedica del suo scritto Dell'economia o vero del Governo della casa di messer Aonio Paleari che è il seguito di un precedente, che trattava del Governo della città , andato perduto. Svolto in forma di dialogo, si rifà a una tradizione che annovera, tra gli altri, il Della famiglia dell'Alberti e il Re uxoria di Francesco Barbaro; concepito il matrimonio con una donna come «cara compagnia, che del ben tuo s'allegri, come del suo medesimo, del male s'attristi, come del suo stesso», vi afferma l'eguaglianza fra uomo e donna, con un'armonia di vita che solo può realizzarsi grazie alla conformità dei costumi e della religione, all'accordo sull'educazione dei figli, al buon trattamento dei servi, nell'amare «ciascuno che della specie dell'uomo sia».
Con l'appoggio di Francesco Grasso, giurista milanese, di Annibale della Croce, umanista e già segretario del Senato milanese e del precettore, già insegnante di retorica a Como, Primo Conte, Paleario ottiene dal Senato di Milano la cattedra di studi umanistici[1] rimasta vacante dalla morte del professore Marcantonio Maioragio, avvenuta il 4 aprile 1555 e nella chiesa di Santa Maria della Scala, il 29 ottobre 1555, tiene l'orazione inaugurale, che fu stampata poche settimane dopo col titolo di Prefatio de ratione studiorum.
In essa sostenne il legame fra scienza e retorica, in un'unione fra l'Aristotele della Politica e il maestro di retorica Cicerone, lo studio dei quali, per Paleario, è di grande utilità per i giovani che volessero dedicarsi alla cosa pubblica. Nel dialogo Il grammatico sostiene che la lingua latina è il veicolo per la conoscenza della cultura del tempo, non già l'occasione di esercitazioni retoriche.
Nella cerchia delle sue amicizie, si annoverano l'umanista Publio Francesco Spinola[1], il cardinale Cristoforo Madruzzo, governatore di Milano dal 1556 al giugno 1557, lo storico Giovanni Michele Bruto, che lo definì «poeta summo atque oratore summo», Mino Celsi, senese, autore di un De haereticis capitali supplicio non afficiendis, erasmiano, col quale condivise la rivendicazione della libertà di coscienza e della tolleranza religiosa.
In tutta l'Italia, a seguito della conclusione del Concilio di Trento, si rafforza la vigilanza contro la propaganda protestante: nel marzo del 1563 l'inquisitore di Milano ordinava di controllare i traffici commerciali con «Squizzeri e Grisoni, li quali sotto specie di mercanzie, che mandano in diverse parti del mondo, hanno intelligenze e corrispondenze secrete non solo pertinenti alla lor setta, ma di pigliare a certi tempi l'armi in mano et sollevarsi contro li lor prìncipi», e nel 1565 s'insediava nell'arcivescovado di Milano quel Carlo Borromeo che assumerà nell'istruzione dei fedeli e, insieme, nella repressione dell'eresia, con la creazione di una rete capillare d'informatori, il principale compito della sua opera pastorale.
Paleario vorrebbe che l'opera, che sarà pubblicata nel 1600 a Heidelberg, costituisse una base di discussione teologica in vista di quell'auspicato Concilio, allargato anche ai laici, che egli aveva già proposto più di vent'anni prima ai maggiori esponenti protestanti.
Nel trattato Aonio Paleario sostiene che il papato, con i suoi privilegi e la sua avidità di ricchezze, non è solo responsabile della crisi della Chiesa, ma anche dei mali che attanagliano l'Italia, luogo di guerre cui partecipano gli stessi papi, ove liberamente agiscono prostitute, lenoni e simoniaci, ma s'incarcerano, si torturano e si mandano a morte coloro che chiedono la restaurazione della parola del Vangelo.
Nel 1567 Paleario chiese al tipografo di Basilea Tommaso Guarino la ristampa delle sue opere, nel frattempo esaurite, con l'accortezza di non indicare, nel frontespizio, che esse erano state riviste e approvate dall'autore; questa cautela fu però disattesa e così l'inquisitore di Milano, Angelo da Cremona, trovò nell'orazione Pro se ipso gli stessi elogi dei teologi protestanti e gli stessi attacchi alla Chiesa cattolica contenuti nella precedente edizione.
Il 19 aprile Paleario fu sottoposto a un primo interrogatorio e il 20 agosto riceveva l'ingiunzione di presentarsi al Tribunale dell'Inquisizione di Roma. Incarcerato a Milano, Aonio presentò in settembre certificati medici che attestavano la sua impossibilità di mettersi in viaggio: gli fu accordata una dilazione e fu liberato ma il 2 maggio 1568, alla nuova ingiunzione giuntagli da Roma, dovette obbedire. Vane erano state le sue richieste di intercessione rivolte una, indirettamente, al principe di SabbionetaVespasiano Gonzaga, che Aonio consolava della perdita della moglie Anna d'Aragona e una esplicita, all'imperatore Massimiliano II: alla fine di agosto 1568 è rinchiuso nel carcere romano di Tor di Nona.[1]
Il 4 ottobre 1569 affronta l'ultimo interrogatorio, nel quale non riconosce errori, e accusa papa Pio V di aver tolto dal breviario il nome di Cristo e di essere in peccato mortale per aver fatto uccidere gli eretici: Aonio fa, in forma indiretta, un confronto fra la Riforma protestante che pone al centro Cristo e la Controriforma cattolica che abbandona la centralità di Cristo, sostituita dalla centralità del papato.
La condanna
I giudici concludono che Aonio «negava che esistesse e che si ritrovasse il purgatorio; disapprovava l'uso di seppellire i morti nelle chiese e sosteneva che si doveva allontanare in altro modo il fetore dei cadaveri; affermava che questo era il costume degli antichi romani, che decisero di seppellire i morti fuori dell'Urbe; disprezzava e aveva una pessima opinione della condizione e dell'abito dei monaci, paragonati ai sacerdoti di Marte, che portavano gli ancili attraverso Roma cantando e danzando, e ai sacerdoti di Cibele i quali, con vesti lacerate, torcevano il collo come una torcia, e ai magi dei Galli; li derideva anche per i vari abiti religiosi; sembrava attribuire la giustificazione alla sola fede nella misericordia divina, che ha rimesso i peccati per l'opera di Cristo».
All'alba del 3 luglio 1570 scrive le sue due ultime lettere, dirette ai figli Lampridio e Fedro e alla moglie Marietta:
«Consorte mia carissima, non vorrei che tu pigliassi despiacere del mio piacere et a male il mio bene; è venuta l'ora che io passi di questa vita al mio Signore e padre, e Dio; io vivo tanto allegramente, quanto alle nozze del figlio del gran re, del che ho sempre pregato il mio Signore, che per sua bontà e liberalità infinita mi conceda. Si che, la mia consorte dilettissima, contentatevi della voluntà de Dio e del mio contento et attendete alla famigliola sbigottita che resterà , di allevarla e custodirla col timore di Dio et esserli madre e padre. Io ero già di 70 anni vecchio e disutile. Bisogna che i figli, colla virtù e col sudore, si sforzino a vivere onoratamente. Dio padre et il Signor nostro Giesù Cristo et la communione dello Spirito Santo sia collo spirito vostro. Di Roma, il dì 3 di luglio 1570. Tuo marito Aonio Paleari»
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