Alla fine del 1908, con il grado di tenente, si recò a Reggio Calabria, gravemente colpita dal terremoto di Messina, ove rintracciò personalmente sotto le macerie i resti della fidanzata.[1]
Più tardi si sposò e, trasferita la propria residenza a Roma, ebbe quattro figli.
Successivamente, durante la prima guerra mondiale, si distinse nel proprio ruolo di comando in diversi episodi e anche durante la battaglia di Caporetto, malgrado la grave sconfitta inflitta dalle Potenze centrali alle truppe italiane. Caduto prigioniero delle truppe germaniche, trascorse circa due anni internato in campo di concentramento tedesco.
Al termine del conflitto, decorato con quattro medaglie d'argento e due di bronzo al valore militare, per le gravi ferite riportate in combattimento fu riconosciuto "grande invalido".
Il 24 febbraio 1923, con il grado di maggiore, partecipò assieme ad altri decorati della Grande guerra alla fondazione dell'Istituto del Nastro Azzurro (inizialmente denominato "Legione Azzurra"), che si proponeva di raccogliere come propri soci esclusivamente decorati al valor militare in un'ottica nazionalista che vedeva il grande conflitto come compimento del Risorgimento italiano. La fondazione avvenne a Roma durante una riunione presieduta dal generale Pirzio Biroli cui presero parte come soci fondatori dieci decorati, tra i quali Acerbo, Balbo, Casagrande, De Vecchi, Guzzoni e lo stesso Simoni.[2]
Nel 1932 venne collocato nella riserva con il grado di generale di divisione.
Passò quindi a dirigere, come presidente, una società commerciale con sede a Roma.
Denunciato da un delatore, fu sorpreso ed arrestato presso la sua abitazione da militi delle SS il 23 gennaio 1944, mentre rientrava da un'importante riunione organizzativa del Fronte tenuta all'indomani dello sbarco alleato di Anzio.
Fu quindi rinchiuso nella prigione nazista di via Tasso, ove fu lungamente e, malgrado il grado, l'età e le invalidità, ripetutamente interrogato e torturato, nonché sottoposto a una finta fucilazione, pur senza mai rivelare ciò che ai tedeschi premeva, ossia i nomi di altri aderenti alla Resistenza ed i loro nascondigli[4].
Durante la prigionia riuscì ad inviare clandestinamente fuori dal carcere un foglietto con un breve messaggio cifrato che, tradotto, recitava:
«Simone Simoni – cella – dodici – Giuseppe – Ferrari –
due. Sono – malmenato – soffro – con – orgoglio –
il – mio – pensiero – alla – patria – e – alla –
famiglia.»
Il 24 marzo 1944 fu massacrato alle Fosse Ardeatine assieme ad altri 334 prigionieri e rastrellati.
Alla sua memoria è dedicata presso Sora la caserma "Simone Simoni", sede del XVII Battaglione "Acqui", diversi istituti scolastici ed una via a Roma, alla Balduina, non lontano da viale delle medaglie d'Oro.[6]
«Valoroso combattente di otto campagne, grande invalido di guerra, superdecorato al valore, di eccezionali qualità morali e di carattere, fedele al giuramento ed al proprio dovere di soldato, partecipava tra rischi continui attivamente alla lotta clandestina contro il secolare nemico. Arrestato dalla sbirraglia nazifascista e sottoposto alle più inumane torture, manteneva con contegno fiero e virile l'assoluto segreto sull'organizzazione, salvando così la vita ad alcuni suoi collaboratori. In occasione di una esecuzione sommaria veniva per rappresaglia barbaramente trucidato facendo olocausto di se stesso per l'affermazione delle più alte idealità civili e militari. Chiudeva così, onorata dalla gloria del supremo sacrificio, una vita eroica intensamente e nobilmente spesa al servizio della Patria.» — Roma, Fosse Ardeatine, 24 marzo 1944
^"I martiri delle Ardeatine. Omaggio alle memoria delle 335 vittime dell’eccidio nazista. Tra loro ricordiamo anche i 21 fratelli trucidati nelle cave alla periferia di Roma, eroi della libertà", Erasmo, 3 marzo 2021, p. 21.
^ Luciana Frapiselli, Undici strade per undici martiri, in Monte Mario, n. 222, Roma, Associazione degli Amici di Monte Mario, Marzo 2004, p. 3.