Il 23 maggio 1958, viene a mancare improvvisamente il primo cittadino Maugeri, durante la carica del suo mandato. Salvo Lima, che fino a quel momento era stato anche vicesindaco, arrivò a ricoprire il ruolo di “sindaco ad interim” dal giorno dopo fino alla sera del 7 giugno, quando poi fu letteralmente promosso a sindaco, dopo delle consultazioni del consiglio comunale di allora. All'età di 30 anni, Lima risulta ancora oggi il secondo sindaco più giovane del capoluogo siciliano ad essere eletto: il primato appartiene ad Antonio Starabba, marchese di Rudinì, primo cittadino a 24 anni. In quell'occasione, il consigliere Vito Ciancimino, anch'egli sostenitore di Giovanni Gioia, gli subentrò nella carica di assessore ai lavori pubblici.
Durante il periodo della giunta comunale di Lima, delle 4.000 licenze edilizie rilasciate, 1.600 figurarono intestate a tre prestanome, che non avevano nulla a che fare con l'edilizia[6]; vennero apportate numerose modifiche al piano regolatore di Palermo, che permisero alla ditta di Nicolò Di Trapani (pregiudicato per associazione a delinquere) di vendere aree edificabili ad imprese edili, mentre il costruttore Girolamo Moncada (legato al boss mafioso Michele Cavataio) ottenne, in soli otto giorni, delle licenze edilizie per numerosi edifici[7]; il costruttore Francesco Vassallo (genero di Giuseppe Messina, capomafia della borgata Tommaso Natale[8]) riuscì a ricevere numerose licenze edilizie, nonostante violassero le disposizioni del piano regolatore[9]. Durante la sindacatura di Lima, l'amministrazione comunale concesse la licenza di demolizione della Villa Deliella, capolavoro del Liberty siciliano, i cui lavori iniziarono il giorno stesso per aggirare la legge di salvaguardia dei beni culturali.[10] Questa scelta fu sottoposta a diverse critiche a livello locale e nazionale, di cui la più autorevole fu quella dell'urbanista Bruno Zevi, che in un famoso articolo apparso sul settimanale L'Espresso contestò l'operato di Lima e della sua giunta.[11]
Nel 1962, Lima divenne inoltre segretario provinciale della Democrazia Cristiana di Palermo, fino al 1963; dal 1963 al 1964 fu commissario straordinario dell’ERAS (Ente per la Riforma agraria in Sicilia) e poi, dal 1965 al 1966, fu nuovamente primo cittadino[12]. Sulle pagine de Il Popolo, quotidiano ufficiale della Democrazia Cristiana, Lima lanciò il celebre slogan elettorale in occasione delle amministrative del 1964: «Palermo è bella, facciamola ancora più bella!».[13]
Nel 1972, Lima venne nominato sottosegretario alle Finanze nel Governo Andreotti II e riconfermato durante i Governi Rumor IV e V, mentre nel 1974 venne nominato sottosegretario al Bilancio e alla programmazione economica, durante il Governo Moro IV[18].
Il 12 marzo 1992, dopo essere uscito dalla sua villa a Mondello per recarsi all'hotel Palace a organizzare un convegno in cui era atteso Giulio Andreotti, Lima era a bordo di un'auto civile Opel Vectra guidata da un docente universitario, Alfredo Li Vecchi, con un suo collaboratore e assessore provinciale, Nando Liggio; un commando con alla testa due uomini in motocicletta sparò alcuni colpi di arma da fuoco contro la vettura bloccandola. Gli altri occupanti del mezzo non furono presi di mira dagli assassini. Lima scese dall'auto di corsa cercando di mettersi in salvo, ma fu subito raggiunto dai killer e ucciso con tre colpi di pistola[22].
«Restando nell'argomento delle relazioni è certo che Angelo e Salvatore La Barbera, nonostante il primo lo abbia negato conoscevano l'ex sindaco Salvatore Lima ed erano con lui in rapporti tali da chiedergli favori [...] Basti considerare che Vincenzo D'Accardi, il mafioso del «Capo» ucciso nell'aprile 1963, non si sarebbe certo rivolto ad Angelo La Barbera per una raccomandazione al sindaco Lima, se non fosse stato sicuro che Angelo e Salvatore La Barbera potevano in qualche modo influire su Salvatore Lima. Del resto, quest'ultimo ha ammesso di avere conosciuto Salvatore La Barbera, pur attribuendo a tale conoscenza carattere puramente superficiale e casuale»
(Sentenza istruttoria del giudice Terranova[5][6])
Il 1º novembre 1970, Lima ruppe la sua solita riservatezza e rilasciò un'intervista al giornalista Giorgio Frasca Polara de L'Unità in cui negò i rapporti tra mafia e politica: «(...) Palermo è l'unica città d'Italia che non conosce speculazione edilizia. (...) Non ho difficoltà ad ammettere di aver conosciuto Salvatore (La Barbera n.d.r.). Venne in comune a chiedermi un permesso di posteggio. Glielo concessi. Tutto qui. (...) «Non ho difficoltà ad ammettere che c'è stato chi ha accettato involontariamente i voti della mafia. Ma questo è accaduto in altri tempi, quando io ero piccolo. Leggerezza forse, mai collusione. Buonafede, qualche sbandamento...Sa, in tempo di elezioni il politico è accecato».[27]
Nel 1974 Paolo Sylos Labini si dimise dal comitato tecnico-scientifico del ministero del Bilancio, di cui faceva parte da circa dieci anni, quando Giulio Andreotti, ministro in carica per quel dicastero, nominò come sottosegretario Salvo Lima, che già all'epoca era comparso varie volte nelle relazioni della Commissione parlamentare antimafia ed era stato oggetto di quattro richieste di autorizzazioni a procedere nei suoi confronti per peculato, interesse privato e falso ideologico[28]. Prima delle dimissioni, Sylos Labini sollevò il problema col presidente del consiglio Aldo Moro, il quale affermò di sentirsi "disonorato nel non poter fare nulla" in quanto «Lima è troppo forte e troppo pericoloso»[29]. Sylos Labini si rivolse allora direttamente ad Andreotti, affermando: «O lei revoca la nomina di Lima, che scredita l'immagine del ministero, o mi dimetto». Andreotti non lo lasciò nemmeno finire e lo liquidò rinviando il discorso.[29][30][31]
Nel 1984 il gruppo parlamentare di Democrazia Proletaria, nelle persone del segretario nazionale Mario Capanna e del deputato Guido Pollice, presentò a Montecitorio un dossier intitolato Un amico a Strasburgo. Documenti della Commissione antimafa su Salvo Lima, redatto da Umberto Santino (attivista e studioso del Centro di documentazione "Peppino Impastato") che raccoglieva tutti gli atti della prima Commissione parlamentare antimafia (V-VI Legislatura) che riguardavano appunto Lima.[32] L'europarlamentare, a sua volta, rispose alle accuse con un documento in cui affermava di non aver «mai riportato condanne penali di alcun genere» perché «i procedimenti giudiziari in questione - peraltro risalenti a circa 22 anni addietro - sono stati tutti chiusi, o per sentenze di proscioglimento passate in giudicato (la maggior parte) o per la sopravvenuta prescrizione».[33] Contestualmente, gli eurodeputati del Gruppo Arcobaleno presentavano una risoluzione al Parlamento europeo, con la quale si invitava Lima «a fare chiarezza sulla vicenda e a dimostrare la sua estraneità ad ogni addebito onde non mantenere nel discredito l’Istituzione». La risoluzione fu respinta grazie anche al voto sfavorevole degli europarlamentari del Partito Comunista Italiano, nonostante in passato avesse attaccato pesantemente Lima[33].
Nel 1988 Lima venne tirato in ballo dal collaboratore di giustizia Antonino Calderone in merito al trasferimento di un funzionario di polizia sgradito a Cosa nostra, ma non riportò conseguenze penali[34]. L'anno seguente, un altro collaboratore di giustizia, Giuseppe Pellegriti, lo accusò di essere il mandante degli omicidi del Presidente della Regione SicilianaPiersanti Mattarella e del generale Carlo Alberto dalla Chiesa ma il giudice Giovanni Falcone lo incriminò per calunnia perché le accuse si rivelarono inventate[35]. A causa dell'incriminazione di Pellegriti, Leoluca Orlando, allora sindaco di Palermo ed avversario politico di Lima all'interno della DC palermitana, attaccò pubblicamente l'eurodeputato nel corso di diversi programmi televisivi in cui era ospite[36] ed accusò Falcone di aver "tenuto chiusi nei cassetti" della Procura una serie di documenti riguardanti gli "omicidi eccellenti" avvenuti nel capoluogo siciliano[37]. Nel 1991 un esposto presentato al CSM da Orlando insieme a Carmine Mancuso e ad Alfredo Galasso, esplicitava l'accusa nei confronti di Falcone di aver omissato i verbali del collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia in cui parlava dei rapporti di Lima con la mafia, in particolare con il boss Stefano Bontate.[38][39]
Nei primi interrogatori con il giudice Falcone nel 1984, il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta negò con forza di conoscere il parlamentare andreottiano (nonostante risultasse da testimonianze e dagli atti della Commissione parlamentare antimafia)[36][39][40] ma nel settembre 1992, a seguito delle stragi di Capaci e via d'Amelio, cambiò versione e rilasciò alcune dichiarazioni agli inquirenti secondo cui il padre di Lima era un affiliato della Famiglia di Palermo Centro (all'epoca guidata dal boss Angelo La Barbera) ed aveva "raccomandato" il figlio ai fratelli La Barbera perché lo sostenessero elettoralmente[17][41]. Buscetta inoltre ammise di aver conosciuto Lima alla fine degli anni cinquanta, quando era già sindaco di Palermo, e con lui si sarebbe scambiato una serie di favori, incontrandosi con l'eurodeputato nel 1980 a Roma durante la sua latitanza[42][43]. Nel 1993 l'onorevole Franco Evangelisti dichiarò inoltre che Lima gli aveva confidato di conoscere bene Buscetta[15].
La relazione della Commissione Parlamentare Antimafia sui rapporti tra mafia e politica, redatta dall'onorevole Luciano Violante ed approvata dal Parlamento il 6 aprile1993, arrivò alle seguenti conclusioni: «Risultano certi alla Commissione i collegamenti di Salvo Lima con uomini di cosa nostra. Egli era il massimo esponente, in Sicilia, della corrente democristiana che fa capo a Giulio Andreotti. Sulla eventuale responsabilità politica del senatore Andreotti, derivante dai suoi rapporti con Salvo Lima, dovrà pronunciarsi il Parlamento»[44].
Nel maggio 1993 il nome di Lima fu nuovamente al centro della cronaca a seguito delle indagini sulla Tangentopoli siciliana: l'europarlamentare sarebbe stato uno dei politici cui erano destinate le tangenti per aggiudicarsi gli appalti della SIRAP (società controllata dall'ESPI per lo sviluppo delle aree industriali ed artigiane)[45][46][47][48].
Nella sentenza di primo grado del processo a carico di Andreotti (pronunciata il 23 ottobre del 1999), la Corte dichiarò nella seconda sezione del provvedimento emanato che « [...] dagli elementi di prova acquisiti si desume che già prima di aderire alla corrente andreottiana, l'on. Lima aveva instaurato un rapporto di stabile collaborazione con "cosa nostra"»[41]. Infatti secondo le dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, l'onorevole Lima era strettamente legato ai cugini Ignazio e Nino Salvo (imprenditori affiliati alla Famiglia di Salemi), ed attraverso loro anche ai boss mafiosi Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti[17]; sempre secondo i collaboratori di giustizia, Lima era il contatto per arrivare al suo capocorrente Giulio Andreotti, soprattutto per cercare di ottenere una favorevole soluzione di vicende processuali[49]. In particolare il collaboratore Francesco Marino Mannoia riferì che l'onorevole Andreotti, accompagnato da Lima, incontrò due volte Bontate ed altri boss mafiosi a Palermo nel 1979 e nel 1980, i quali gli espressero le loro lamentele sull'operato del presidente della Regione Piersanti Mattarella (tali dichiarazioni sono state ritenute veritiere dalla sentenza della Corte d'Appello nel processo a carico di Andreotti e confermate in Cassazione)[50]. Marino Mannoia dichiarò anche che l'onorevole Lima era un affiliato "riservato" della Famiglia di viale Lazio[17].
La sentenza definitiva del processo Andreotti inoltre ritiene provato che, dopo l'inizio della seconda guerra di mafia, i cugini Salvo « [...] si mettono a disposizione della fazione vincente [dei Corleonesi guidati dal boss Salvatore Riina e furono risparmiati per] i possibili collegamenti con Lima ed Andreotti», venendo incaricati di curare le relazioni soprattutto con l'onorevole Lima: secondo il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi, un altro tramite tra Riina e Lima furono soprattutto i fratelli Salvatore e Antonino Buscemi (imprenditori e mafiosi di Boccadifalco) poiché «l'on. Lima era "nelle mani" dei Buscemi, cioè [...] erano in grado di fargli fare tutto quello che volevano»[17].
Secondo la sentenza del processo per l'omicidio dell'onorevole (emessa nel 1998), Lima si attivò per modificare in Cassazione la sentenza del Maxiprocesso di Palermo che condannava molti altri boss all'ergastolo; tuttavia però il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò gli ergastoli del Maxiprocesso[51] e sancì la validità delle dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta: per queste ragioni Lima venne ucciso, anche per lanciare un avvertimento all'allora presidente del consiglio Andreotti, che aveva firmato un decreto-legge che aveva fatto tornare in carcere gli imputati del Maxiprocesso scarcerati per decorrenza dei termini e quelli agli arresti domiciliari[52].
^U. Santino (a cura di), Un amico a Strasburgo. Documenti della Commissione antimafa su Salvo Lima, Centro siciliano di documentazione G. Impastato, Palermo, 1984.
^abUmberto Santino, L'alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1997.
Menghini Paolo, Nese Marco, La discesa cominciò con i pentiti, su archiviostorico.corriere.it, Corriere della Sera, 13 marzo 1992. URL consultato il 7 marzo 2009 (archiviato dall'url originale il 17 ottobre 2014).