«d’azzurro, all'aquila dal volo spiegato, coronata all'antica d'argento, sostenente con l'artiglio destro un fascio littorio posto in banda, con frecce sporgenti, e col sinistro un corno di abbondanza, posto in sbarra, il tutto al naturale. Motto: Crevit Ragusia Hyblae Ruinis»
Anche se non specificato l'aquila viene sempre intesa essere al naturale.[2] Lo stemma attualmente in uso da parte del Comune riporta, al posto del fascio littorio, un caduceo.[3]
Il gonfalone si presenta come un drappo di color verde.
Storia
Inizialmente lo stemma era costituito da un'aquila, a cui era accollato uno scudo d'argento alla croce di rosso, portante cioè la croce di San Giorgio, simbolo presente in molti altri stemmi cittadini (ad esempio nello stemma di Milano e di Genova) e sulla bandiera dell'Inghilterra. L'uso dello stemma fu concesso dal viceré di SiciliaGiovanni Alfonso Enriquez de Cabrera nel 1644 quando si trovò in visita alla città di Ragusa. In quella occasione, grato per l'accoglienza, egli concesse alla Ragusa antica il titolo di città, l'uso nello stemma dell'aquila aragonese e ai giurati del tempo e al capitano di giustizia la possibilità di utilizzare delle mazze d'argento. Lo stemma fu così realizzato e conteneva nel petto dell'aquila lo scudo con la croce di S. Giorgio, patrono principale e protettore della città (il culto del santo ha origini antichissime, forse portato dai normanni[2] o addirittura risalente all'epoca del dominio bizantino).
Il mottoCrevit Ragusia Hyblae Ruinis (traduzione: Crebbe Ragusa sulle rovine di Ibla), aggiunto dopo il terremoto del 1693, locuzionelatina posto in un cartiglio presente al di sotto dello scudo. Esso ha un significato duplice: da un lato ostenta le antiche radici della città (collegandola alla greca Hybla Heraia), dall'altra può essere interpretato come l'orgoglio di appoggiarsi su rovine di precedenti popoli.
Note
^ Luigi Rangoni Machiavelli, Stemmi delle colonie, delle provincie e dei comuni del Regno d'Italia riconosciuti o concessi dalla Consulta Araldica del Regno al 1º novembre 1932, in Rivista del Collegio Araldico, anno XXXII, 1933, p. 28.