Suo nonno, omonimo Giuseppe Di Cristina, fu un membro di spicco della coscamafiosa di Riesi, che con l'intimidazione riuscì ad ottenere l'occupazione di gabellotto. Arrivato il momento di nominare il proprio successore, scelse il giorno in cui, a Riesi, si festeggia la festa di San Giuseppe. Quando la processione si fermò sotto il balcone di Don Giuseppe, il vecchio padrino baciò suo figlio Francesco davanti a tutta la folla per mostrare ai suoi uomini il passaggio di nomina, quindi Francesco ‘Don Cicciu’ Di Cristina, fece cenno alla processione di continuare.
Da questo momento era diventato chiaro a tutto il paese che Don Ciccu era diventato il nuovo boss di tutta Riesi. Francesco Di Cristina ebbe forti legami con le famiglie mafiose di Palermo e con molti gruppi politici. Morì il 19 marzo del 1961 di morte naturale.
Sposò l'insegnante Antonina Di Legami, figlia di un dirigente del PCI di Riesi e per un periodo anche sindaco del paese[2]. I suoi testimoni di nozze furono Giuseppe Calderone – fratello di Antonino e boss incontrastato di Catania – e il senatore della DC, Graziano Verzotto.
Verzotto era anche presidente dell'Ente Minerario Siciliano, istituito dopo la Seconda guerra mondiale con lo scopo di porre fine alla crisi che stava avvolgendo l'industria dello Zolfo in Sicilia.[1]
Messo alle strette, Don Peppe decise di schierarsi da un altro lato, a causa della scarsità di voti ricevuti nelle file della DC per coinvolgimenti con la giustizia. Decise allora di favorire lo stesso Gunnella, che nelle successive elezioni ricevette improvvisamente una valanga di voti rispetto al passato[1][4]. Nonostante le polemiche sollevate dalla Commissione parlamentare antimafia riguardo al suo coinvolgimento con il Di Cristina, Gunnella fu difeso dal Leader del Partito Repubblicano, Ugo La Malfa: quest'ultimo lo fece eleggere con la carica di ministro[6][7][3].
Coinvolgimento negli omicidi
Secondo gli inquirenti e stando alle rivelazioni del pentito Tommaso Buscetta, Di Cristina fu coinvolto nell'assassinio del presidente dell'ENIEnrico Mattei[8] per via dei suoi legami con il deputato Graziano Verzotto, anche lui implicato nell'omicidio[9][10][11].
Sempre stando alle rivelazioni di Buscetta, Di Cristina è stato coinvolto anche nel rapimento e successivo omicidio del giornalista Mauro De Mauro[10], che a sua volta indagava sul caso Mattei.
Nel 1970 fu ricostituita la commissione di Cosa Nostra. Una delle prime questioni che doveva essere affrontata fu l'offerta del principe Junio Valerio Borghese per supportare i suoi piani per un golpe ai danni dello Stato. Calderone e Di Cristina incontrarono Borghese a Roma ma Gaetano Badalamenti si oppose al piano. Ad ogni modo, il Golpe Borghese fallì nella notte dell'8 dicembre 1970.
Di Cristina fu arrestato ma prosciolto per mancanza di prove nel "processo dei 114" che si concluse nel luglio del 1974[12]. E ancora fu protagonista in un altro processo ad Agrigento che aveva ad oggetto una vendetta tra il clan mafioso di Riesi e quello di Ravanusa sul rifiuto di mettere al sicuro un carico di sigarette di contrabbando appartenenti al boss (la cosiddetta "faida di Ravanusa"): Di Cristina era infatti accusato di essere il mandante di un paio di omicidi, tra cui quello dell'albergatore Candido Ciuni, mafioso ravanusano freddato nell'ottobre1970 da tre killers travestiti da infermieri mentre era ricoverato all'Ospedale Civico di Palermo dopo essere sopravvissuto ad un precedente agguato[3][7]. Ancora una volta tutti gli imputati, incluso Di Cristina, furono assolti da quest'accusa per mancanza di prove nel marzo del 1974. Secondo Antonino Calderone e Francesco Di Carlo, gli omicidi avvenuti a Ravanusa (compreso quello dell'albergatore Ciuni) vennero eseguiti da Damiano Caruso su ordine di Di Cristina senza consultare i boss locali (Angelo Ciraulo di Ravanusa e Antonio Ferro di Canicattì), facendo crescere così il risentimento di questi ultimi nei confronti del boss riesino che li portò ad associarsi con i Corleonesi di Totò Riina, seguiti da Giuseppe Di Caro di Canicattì e da Carmelo Colletti di Ribera[13].
Il confronto con i Corleonesi
Giuseppe Di Cristina si scontrò duramente con i Corleonesi sull'uccisione del Colonnello dei Carabinieri, Giuseppe Russo, avvenuto il 20 agosto del 1977. Russo, che secondo i Corleonesi era confidente dello stesso Di Cristina, fu ammazzato senza il consenso della Commissione regionale, la quale si era opposta alle richieste di Riina dando ragione a Di Cristina.
Il 21 novembre 1977, Di Cristina riuscì a salvarsi da un attentato nei suoi confronti, dove ebbero la peggio i suoi due uomini: quel giorno, intorno alle ore 7:45, in contrada Palladio, nel tratto Riesi - Sommatino della S.S. 190 delle zolfare, un'autovettura Fiat 127, simulando un incidente, speronava frontalmente un'altra auto, una BMW a bordo della quale viaggiavano Giuseppe Di Fede, alla guida del mezzo, e Carlo Napolitano, seduto a fianco del conducente.
Subito dopo l'urto violento, due killer spietati, scesi dalla 127, esplodevano numerosi colpi di fucile da caccia e di rivoltella contro i predetti Di Fede e Napolitano, assassinandoli barbaramente.
Nel gennaio 1978, Di Cristina, insieme ai bossGaetano Badalamenti e Giuseppe Calderone, incontrò Salvatore "Cicchiteddu" Greco, giunto dal Venezuela dove risiedeva, per discutere sull'eliminazione di Francesco Madonia, capo della cosca di Vallelunga Pratameno, in provincia di Caltanissetta, il quale era sospettato di aver ordinato il fallito attentato ai danni di Di Cristina su istigazione di Totò Riina, a cui era strettamente legato; Greco però consigliò di rimandare ogni decisione a data successiva ma, ripartito per Caracas, vi morì prematuramente per cause naturali, il 7 marzo 1978. In seguito alla morte di Greco, Madonia venne ucciso il 16 marzo da Di Cristina e da Salvatore Pillera, inviato da Giuseppe Calderone. Riina allora accusò Badalamenti di aver ordinato l'omicidio di Madonia senza autorizzazione e lo mise in minoranza, facendolo espellere dalla "Commissione" e facendolo sostituire con Michele Greco, un suo socio[12].
Informatore della Polizia
Di Cristina venne isolato sempre di più. Decise allora di informare i Carabinieri sul pericolo del potere Corleonese. La prima riunione ebbe luogo il 16 aprile 1978 a Riesi, nella campagna di suo fratello Antonio.
Diede un quadro completo delle divisioni interne di Cosa Nostra[14] tra i Corleonesi guidati da Luciano Liggio e la fazione opposta di Gaetano Badalamenti e Stefano Bontate. Secondo Di Cristina, la squadra dei Corleonesi era formata da 14 boss sanguinari ed infiltrati nelle altre famiglie mafiose, i quali facevano capo a Totò Riina e Bernardo Provenzano, colpevoli di numerosi omicidi, specialmente quello del tenente colonnello Giuseppe Russo, avvenuto su istigazione di Liggio dal carcere[15].