Le compagnie di ventura erano truppe mercenarie utilizzate nel Medioevo, formate dai cosiddetti soldati di ventura, organizzate e guidate da un condottiero, generalmente detto capitano di ventura. Il principale scopo di tali compagnie era quello di arricchirsi il più possibile, e a tale finalità si schieravano a favore di un signore o di un altro, spesso rivali tra loro, sulla base di un ingaggio più vantaggioso.
Nel corso del Quattrocento tutti i principi italiani utilizzarono queste truppe di professionisti della guerra, che avevano un livello superiore di addestramento ed una maggiore capacità di usare le nuove armi da fuoco. Le compagnie mercenarie declinarono in seguito alla nascita e al rafforzarsi degli stati nazionali. L'ultima compagnia di ventura degna di nota fu quella capitanata da Giovanni delle Bande Nere nei primi anni del Cinquecento.
La prima unità di grandi dimensioni fu la Compagnia di San Giorgio, riunita da Mastino II della Scala e messa agli ordini di Lodrisio Visconti, che venne lanciata alla conquista di Milano e fu sconfitta nella battaglia di Parabiago. Le compagnie si imponevano una disciplina e una organizzazione, mentre non diminuiva la loro ferocia, peraltro esaltata ad ideale. Il Trecento fu il periodo in cui dilagarono in Italia le compagnie di ventura: ci furono spazio e committenti per tutti, nonché ricchezze da saccheggiare in abbondanza.
L'Italia era, tuttavia, un miraggio che qualche volta deluse le speranze e le illusioni coltivate, come lo fu per Fra Moriale. Questi migliorò l'organizzazione della Grande Compagnia nel cui comando era succeduto a Guarnieri d'Urslingen; con essa ebbe grandi successi militando a volte per il Papa, a volte contro di lui, ma finì la sua carriera giustiziato ad opera di Cola di Rienzo.
Questi esempi sono i più significativi tra le compagnie guidate da condottieri stranieri che percorsero l'Italia devastando città e campagne al solo scopo di arricchirsi. Accanto a queste si misero in luce anche quelle guidate da capi italiani che presto soppiantarono gli stranieri; altrettanto feroci nella ricerca della ricchezza e del potere ma con una maggiore attenzione ai fini politici. Ecco, solo a titolo esemplificativo, le compagnie guidate da Ambrogio Visconti, Castruccio Castracani, Francesco Ordelaffi e Guidoriccio da Fogliano.
Molto spesso i capi italiani di queste compagnie provenivano da famiglie già potenti (il 60% dei capitani di ventura era di nobili origini): a volte erano titolari di signorie, che mettevano se stessi e la propria compagnia al servizio di altri potenti per aumentare ricchezze e potere in un intreccio diplomatico estremamente volatile, basti pensare ai Malatesta e agli Ordelaffi. A volte erano uomini di origine umile, se non infima, che vedevano nel servizio militare mercenario l'opportunità del proprio riscatto sociale e spesso assursero ad altissimi onori ed alla conquista di una propria signoria, anche se a volte effimera e velleitaria.
Nel resto d'Europa
In Francia
Esse devastarono la Francia del XIV secolo sotto i regni di Giovanni II e di Carlo V. I loro componenti venivano reclutati in tutta Europa, ma soprattutto in Germania: molti di questi infatti erano stati assoldati da Edoardo III d'Inghilterra e poi licenziati dopo il trattato di Brétigny del 1360. Essi depredavano le campagne francesi e sollevavano le ire dei contadini che, armatisi, spesso riuscivano efficacemente a contrastarli.
i Tard-Venus: compagnia attiva in Francia nel XIV secolo. Si trattava di mercenari smobilitati dopo il trattato di Brétigny dell'8 maggio 1360. Agli ordini di Petit Meschin e di Seguin de Badefol, combatterono dalla Borgogna alla Linguadoca. Nella battaglia di Brignais del 1362 sconfissero Giacomo di Borbone, conte della Marche, che vi rimase ucciso con il figlio Pietro;
la Compagnia Bianca: compagnia, formatasi anch'essa dopo il trattato di Brétigny, agli ordini John Hawkwood, noto in Italia con il nome di Giovanni Acuto. L'Acuto perfezionò la propria compagnia trasformandola in un'armata regolamentare, che presto si fece conoscere per la capacità bellica e la disciplina militare;
Le compagnie di ventura erano formate da truppe di soldati di venturamercenari, organizzate e guidate da un condottiero detto capitano di ventura. Il condottiero era spesso un nobile caduto in rovina o che si dedicava a tale attività per pura bramosia di potere: infatti i condottieri finivano per guadagnare somme enormi e ricevere titoli nobiliari, cariche governative, feudi e terre, ponendo le basi per un solido avvenire politico e mettendo fine ad una vita di stenti[1]. Ciò li portava quindi a seminare il terrore al loro passaggio e a far sì che ai malcapitati non restasse altro che pagare enormi indennizzi per aver salva la vita, che finivano quasi sempre col dissanguare le finanze locali[1]. La presenza delle compagnie di ventura era dunque vista come un flagello, che lo stesso Francesco Petrarca definì come «una pestilenza più orrenda della stessa peste, una sciagura più grave del terremoto»[1]. Nel corso degli anni alcune casate nobiliari mostrarono una particolare inclinazione per tale attività, come nel caso dei Caldora, dei Colonna, dei Dal Verme, degli Orsini, degli Sforza e dei Visconti.
«Breve saio a costoro, un berretto di cuoio, una cintura, non camicia, non targa, calzati d'uose e scarponi, lo zaino sulle spalle col cibo, al fianco una spada corta e acuta, alle mani un'asta con largo ferro, e due giavellotti appuntati, che usavan vibrare con la sola destra, e poi nell'asta tutti affidavansi per dare e schermirsi. I lor condottieri, guide piuttosto che capitani, chiamavansi anche con voce arabica Adelilli. Non disciplina soffrian questi feroci, non avean stipendi, ma quanto bottino sapessero strappare al nemico, toltone un quinto pel Re; né questo medesimo contribuivano quand'era cavalcata reale, ossia giusta fazione. Indurati a fame, a crudezza di stagione, ad asprezza di luoghi; diversi, al dir degli storici contemporanei, dalla comune degli uomini, toglieano indosso tanti pani quanti dì proponeansi di scorrerie; del resto mangiavan erbe silvestri, ove altro non trovassero: e senza bagagli, senza impedimenti, avventuravansi due o tre giornate entro Terre de' nemici: piombavano di repente, e lesti ritraevansi; destri e temerari più la notte che il dì; tra balze e boschi più che in pianura»
Attraverso il provenzalemaisnada (famiglia, servitù), dal latinomansionata (gente di famiglia), masnada[2], si identificava la schiera di servi che lavorava per una famiglia patrizia. Feudatari o signorotti locali non esitavano a servirsi di questo "esercito" improprio per imporre il proprio potere, più o meno legittimo, e per esercitare anche atti di violenza sulle popolazioni che fossero o meno sotto la propria giurisdizione. Il termine presto acquistò un'accezione negativa, passata ad indicare anche un gruppo di sbandati, di "senza disciplina".
Le masnade erano anche gruppi di grassatori, di predoni che si prestavano occasionalmente al servizio militare presso terzi.
«Gente son sanza freno, e mai non pensan se non di usurpare»
Ad essi si associavano i fuoriusciti dal proprio Comune, da dove una fazione avversa e vincente li aveva scacciati o cadetti che non trovavano spazio nella propria famiglia o nel proprio territorio di origine. Particolarmente attivi erano gli italiani esiliati, la cui prevalente aspirazione era quella di rientrare in possesso dei beni di cui erano stati spogliati o di riconquistare il Comune da cui erano stati cacciati. Queste brigate non erano ancora vere compagnie, la disciplina era pressoché nulla, l'organizzazione militare approssimativa, la fedeltà verso i loro committenti un'opzione, la sete di rivalsa e di bottino enorme.
Le masnade, nel contesto dell'Italia comunale del Trecento, indicavano anche le truppe stipendiarie del Comune. Molto spesso era affidato a particolari persone, distintesi per il loro merito e il loro impegno, il titolo di "capitano delle masnade", carica di eminente valenza militare, in quanto conferiva al possessore del titolo il pieno comando ed addestramento di queste truppe, al soldo del Comune.
Note
^abcA. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, Nuovi profili storici, vol. 1, Bari, Laterza, 2013, pp. 265-269.
^In Spagna, durante il Medioevo, con il termine mesnada si intendeva una riunione di uomini armati appartenenti ad un ricohombre (vale a dire a colui che anticamente apparteneva alla prima nobiltà di Spagna), un consiglio, una parrocchia o un distretto che formava l'unità organica della milizia o dell'esercito. Questa era puramente organica e si differenziava dalla haz, in quanto la mesnada era un corpo, un frammento, una divisione della milizia, mentre la haz era un'unità tattica nel campo di battaglia.
Bibliografia
Claudio Rendina, I capitani di ventura, Roma, Newton Compton, 1985.
Ercole Ricotti, Storia delle compagnie di ventura in Italia, vol. 4, Torino, 1844.