Peto era discendente di una gens originaria di Volaterrae, in Etruria, che forse si era spostata nella Venetia, in particolare nella città di Patavium[1][2][3].
Della carriera di Peto, non molto è noto. L'unica carica attestata lo vede però al vertice dello stato romano: Peto fu infatti console suffetto da settembre a dicembre nel 37 insieme a Gaio Caninio Rebilo[4][5]. Peto e Rebilo sembrano essere stati scelti in origine da Tiberio e confermati come suffetti da Caligola[5][6][7], che decise però di inserire se stesso e lo zio Claudio come consoli suffetti aggiuntivi nei mesi di luglio e agosto del 37, come immediati predecessori dei "tiberiani" Peto e Rebilo[4][5][7]. Durante il loro consolato, il nuovo princeps Caligola ricevette, il 21 settembre, il titolo di pater patriae[8] ma poi andò incontro ad una gravissima malattia[9][10][11], spesso considerata nelle fonti il punto di svolta del principato del giovane[12][13][14] e in ogni caso portatrice di conseguenze che influenzarono i rapporti tra il princeps e i suoi principali consiglieri[15].
Peto doveva trovarsi in Dalmazia insieme a Scriboniano, e al momento del fallimento della rivolta, fu trascinato a Roma in arresto[16][20]. Durante il processo a lui e alla moglie Arria di fronte a Claudio[23], la donna, nonostante la sua alta posizione sociale in quanto amica di Messalina[16], coraggiosamente decise di convincere Peto a prevenire un verdetto di sicura colpevolezza e la morte con il suicidio, mostrandogli l'esempio e anticipandolo nel togliersi la vita[16][24]. Peto, folgorato dall'esempio della moglie, decise allora di togliersi la vita[16], come racconta Plinio il Giovane:
(LA)
«Praeclarum quidem illud eiusdem, ferrum stringere, perfodere pectus, extrahere pugionem, porrigere marito, addere vocem immortalem ac paene divinam: "Paete, non dolet." Sed tamen ista facienti, ista dicenti gloria et aeternitas ante oculos erant.»
(IT)
«Fu certo famoso quell'altro gesto suo [sc. di Arria]: stringere il pugnale, immergerlo nel petto, estrarre la lama, porgere l'arma al marito, soggiungendo un detto divenuto immortale e quasi divino: "Peto, non fa male". Tuttavia facendo e dicendo ciò essa aveva dinanzi agli occhi la gloria e l'immortalità.»
Sposato con l'integerrima Arria[24], Peto ebbe tre figli[6]. Il primo, definito da Plinio il Giovane "di una rara bellezza, di pari modestia, e caro ai genitori per tutte le sue qualità, ancor più che per esser loro figlio"[25], dovette morire ancora giovane di malattia[25]: mentre lo stesso Peto era malato, Arria preparò i funerali e ne guidò l'accompagnamento funebre senza che il marito se ne accorgesse, ed evitò ripetutamente di dar dolore a Peto nascondendogli il decesso del figlio e piangendo di nascosto per poi ricomporsi da vera matrona romana[26]. Il secondo figlio, forse il minore dei due maschi[6], fu Gaio Lecanio Basso Cecina Peto[27]: figlio biologico di Peto e Arria, egli dovette poi essere adottato per testamento dal console ordinario del 64Gaio Lecanio Basso[27][28], e arrivò poi a ricoprire il consolato suffetto nel 70[27]. L'ultima figlia fu invece Arria minore[6], omonima della madre e in qualche modo cognata del poeta volterrano Persio[29], che sposò il patavino[30] (e quindi forse conterraneo del padre[1][2][3]) Publio Clodio Trasea[31][32]: avendo assistito al suicidio dei suoceri[31], Trasea decise non solo di adottare il cognomen Peto[33][34] ma anche di contraddistinguersi per la sua libertà di parola e di pensiero opponendosi a Nerone[30], da cui verrà condannato a morte nel 66[32]. Trasea e Arria minore ebbero una figlia, Fannia[32][35], che sposò Gaio Elvidio Prisco[36], oppositore di Vespasiano da lui condannato a morte nel 74[36][37]: il panegirico di Elvidio portò alla condanna a morte di Erennio Senecione da parte di Domiziano nel 93[38] e anche il figlio di Elvidio e Fannia, omonimo del padre, fu condannato da Domiziano nello stesso anno insieme a tutti i sostenitori del padre[38].
Già pochi anni dopo il loro suicidio, la vicenda di Arria e Peto ispirò la letteratura: Persio ne trasse dei versi ormai perduti[39] e Marziale un epigramma particolarmente significativo nella costruzione della fama di Arria[40].
Nella letteratura moderna, Arria è ricordata con altre due donne che seguirono il marito nella morte nei Saggi di Montaigne (1580)[41], mentre la tragedia Arria und Messalina di Wilbrandt (1874) contrappone la sua figura a quella della dissoluta moglie di Claudio. Tra le altre trasposizioni letterarie si ricordano una tragedia in francese di Marie-Anne Barbier, Arrie et Pétus (Parigi, Barbou, 1707); una lirica in tedesco di Johann Heinrich Merck, Pätus und Arria (Freistadt am Bodensee, Perrenon, 1775); una tragedia in cinque atti in inglese di John Nicholson, Paetus and Arria (Londra, Lackington Allen & Co., 1809); un quadro storico in cinque atti in ceco di Josef Wenzig, Arria a Pätus (Praga, Kober, 1872); una tragedia in tre atti in polacco di Józef Kościelski, Arria (Cracovia, Paszkowski, 1874).
La morte di Arria e Peto è stata poi spesso trasposta nell'arte figurativa d'età moderna. Il tema è presente nei dipinti di West (1766), Vincent (1785), Bouchet (1802) e Bin (1861), come anche in uno schizzo di Rossetti (1872); v'è anche il dubbio che il tema di un Tarquinio e Lucrezia attribuito a Tiziano (1515) sia in realtà la vicenda di Arria e Peto[42]. Nella scultura si ricordano i gruppi marmorei di Lepautre (1691-1696) e la terracotta di Nollekens (1771).
Esempi di adattamento della vicenda in musica sono il Singstück in tedescoPaetus und Arria, pubblicato nel 1786 da Schubart (che lo attribuì ad Anfossi) con testo e aggiunte proprie; la canzone con accompagnamento per tastieraArria to Paetus di Shield con testo di Thomas Holcroft (1786); l'opera Arria di Staehle (1847).
Note
^abR. Syme, Tacitus, II, Oxford 1958, p. 559 nota 3.
^abR. Syme, Roman Papers, II, Oxford 1979, pp. 709-710.
^abR. Syme, Roman Papers, IV, Oxford 1988, pp. 376-377 e 386.
^A. A. Barrett, Caligula. The Abuse of Power, London-New York 2015, pp. 97-98, che rimanda in particolare ad J. Scheid, Commentarii fratrum Arvalium qui supersunt, Rome 1998, p. 31, frgm. 12c, ll. 83-91.
^Le ultime ricostruzioni sono in A. A. Barrett, Caligula. The Abuse of Power, London-New York 2015, pp. 107-109, e R. Cristofoli, Caligola. Una vita nella competizione politica, Firenze 2018, pp. 100-106.
^abP. Buongiorno, Claudio. Il principe inatteso, Palermo 2017, pp. 92-94.
^abcA. Galimberti, La rivolta del 42 e l'opposizione senatoria sotto Claudio, in M. Sordi (ed.), Fazioni e congiure nel mondo antico, Milano 1999, pp. 205-215.
^E. Bianchi, L'opposizione dinastica a Claudio: i casi di Livilla e Agrippina Minore, in R. Cristofoli, A. Galimberti. F. Rohr Vio (ed.), Lo spazio del non-allineamento a Roma fra tarda Repubblica e primo Principato. Forme e figure dell'opposizione politica, Roma 2014, pp. 183-204.