Protagonista della produzione di teleri a Venezia a cavallo tra il XV e il XVI secolo, Carpaccio è oggi considerato il miglior testimone della vita, dei costumi e dell'aspetto della sua città di quegli anni.
Biografia
Origini
Figlio di Pietro, un mercante di pelli, non se ne conosce né la data né il luogo di nascita. Il suo cognome era in realtà Scarpazza o Scarpazo, mentre Carpaccio è l'italianizzazione delle forme latine Carpathius e Carpatio con cui firmava le sue opere. Pare che gli Scarpazo fossero originari dell'isola di Mazzorbo e che il ramo da cui discese Vittore si fosse trasferito a Venezia nel Trecento, presso la parrocchia di San Raffaele arcangelo (chiesa dell'Angelo Raffaele, Dorsoduro)[1].
Il primo documento che lo riguarda è il testamento dello zio, fra Ilario dei frati minori dell'Osservanza del convento di Sant'Orsola fuori le mura di Padova, al secolo Zuane (Giovanni) Scarpazza, datato 21 settembre 1472, nel quale viene designato erede subentrante in caso di lite fra i beneficiari; si può supporre che in quell'occasione Carpaccio fosse almeno quindicenne. Successivamente il suo nome compare in una quietanza d'affitto dell'8 agosto 1486, nella quale viene descritto di giovane età e ancora abitante nella casa paterna[1].
Nulla si conosce nemmeno del suo apprendistato, ma la qualità tecnica tra la prima opera nota (le Storie di Sant'Orsola del 1490) e i lavori immediatamente successivi risulta di molto migliorata, facendo intuire che Carpaccio fosse in quegli anni ancora giovane e in piena formazione[2].
La città lagunare godeva allora di una fase di grande prestigio e ricchezza grazie anche a importanti successi militari e commerciali e commissioni artistiche, delle quali Carpaccio fu, a partire dagli anni novanta, uno dei protagonisti[1].
In queste opere si nota una prima assimilazione del retaggio di Antonello da Messina e dei pittori nordici, nell'individuazione fisiognomica dei personaggi e nella cura dei dettagli. Il segno grafico e puntiglioso, con le tipiche pieghe accartocciate dei panneggi, deriva da fonti ferraresi e dall'onda lunga della scuola padovana, ancora praticata a Venezia dai "mantegneschi" Vivarini. I soggetti dominano rispetto allo sfondo, spesso petroso, con relazioni spaziali e prospettiche non ordinate geometricamente in maniera unitaria, come faceva Gentile Bellini[1].
Giulio Carlo Argan evidenzia che la pittura di Carpaccio "vede e comunica ciò che si vede", non vuole incitare l'osservatore a pregare, filosofare o fantasticare. Il suo è "vedutismo" che si rifà alla cultura empirica diffusa in quel tempo dall'Università di Padova, dove dominava lo studio della dottrina di Aristotele. Questa cultura pittorica, "fondata sulla positività dell'esperienza", giungerà, attraverso Paolo Veronese e Jacopo Bassano, fino a Canaletto[3]. Carpaccio, inoltre, costruisce una nuova concezione dello spazio: uno spazio fatto di cose e non più di linee prospettiche, di forme geometriche e proporzioni.[4]
Nell'eseguire i teleri Carpaccio non poté seguire l'ordine normale del racconto, ma, a giudicare dalle date su alcuni dei dipinti e dai confronti stilistici negli altri, lavorò a ciascuna storia man mano che una parete dell'edificio si rendeva disponibile rimuovendo i due antichi altari e i monumenti funebri (arche) dei confratelli defunti, tra cui anche quella dei Loredan[1].
L'impresa pittorica fu relativamente veloce. Nel 1493 il Sanudo, nel De origine situ et magistratibus urbis Venetiae, fece intendere che il ciclo fosse vicino al completamento, e già nel 1495, con l'Incontro dei fidanzati e partenza dei pellegrini, Carpaccio firmava l'ultimo cartellino leggibile, eseguendo probabilmente immediatamente dopo le tre tele della serie degli Ambasciatori[1].
Mettendo a confronto le opere giovanili con le quelle più recenti di Carpaccio è facilmente ravvisabile una maturazione tecnica molto rapida; la sua abilità tecnica poteva essere paragonabile a quella di Giovanni Bellini, a detta di molti il caposcuola veneziano dell'epoca. Nelle prime tele infatti sono presenti incertezze nella composizione prospettica e nell'orchestrazione della scena, dove manca un centro narrativo focale. Nelle opere successive, invece, le composizioni sono ordite con maggiore sicurezza in ampie panoramiche, con scorci profondi e squadri in prospettiva. I protagonisti, privi di forti significati sentimentali anche nelle scene più drammatiche, sono come sospesi in un ritmo lento e magico. Le tele presentano elementi compositivi legati tra loro da luce e colore e dettagli molto curati che indagano particolari delle architetture, dei costumi, del cerimoniale ufficiale, ma anche della vita quotidiana. Numerosi sono i ritratti di personaggi reali, soprattutto confratelli e membri della famiglia Loredan, i principali finanziatori del ciclo. La materia pittorica è ricca di dettagli ed effetti materici, ma anche reale, con note inequivocabilmente locali, negli scorci che ricordano Venezia e l'entroterra collinare veneto[1].
Scuola di San Giovanni Evangelista
Sulla scorta del successo dei teleri di Sant'Orsola, Carpaccio venne invitato a partecipare anche a un altro grande ciclo che si andava dipingendo in quegli anni, quello per la Scuola Grande di San Giovanni Evangelista. Suo è il Miracolo della Croce a Rialto del 1496 circa, uno dei primi della serie che fu poi completata da Gentile Bellini e altri[1].
L'evento miracoloso si trova relegato nella loggia in alto a sinistra, mentre gran parte della tela è messo a disposizione della veduta urbana. La luce vibra su tutti i dettagli, generando una particolare atmosfera in cui sembra che l'aria circoli liberamente. L'opera, grazie alla sua capacità di focalizzarsi sui più piccoli dettagli, è considerata la migliore verità ottica veneziana, che non avrà rivali fino ai tempi del Canaletto.[1].
Al culmine della carriera ricevette, tra il 1501 e il 1502, la commissione per un vasto telero per la Sala dei Pregadi in Palazzo Ducale. All'opera, che venne terminata entro il 1507 e della quale non si conosce quale fosse il soggetto, si aggiunsero poi, più tardi, altri due "teleri" (1510 circa) per la Sala del Maggior Consiglio con Papa Alessandro III incontra ad Ancona il doge Sebastiano Ziani e lo onora procurandogli l'insegna del parasole, e Papa Alessandro III concede l'indulgenza nel giorno dell'Ascensione ai visitatori della Basilica di san Marco; quest'ultimo dipinto, forse, in collaborazione con Giovanni Bellini[1]. Tutte queste opere furono distrutte nell'incendio del 1577, che bruciò anche le opere di Giorgione e di Tiziano ivi contenute.
All'alba del XVI secolo Carpaccio ricevette la commissione per un altro grande ciclo di teleri, questa volta destinato alla Scuola di San Giorgio degli Schiavoni, così chiamata perché raccoglieva tra i suoi membri i dalmati residenti o di passaggio a Venezia[1].
Tutti i teleri sono datati sui cartellini 1502, tranne gli ultimi due (Battesimo dei seleniti e San Trifone che ammansisce il basilisco), datati 1507: in questi ultimi si iniziano a notare una certa stanchezza compositiva, con la riproposizione di modelli già usati, e un progressivo impoverimento del colore, soprattutto nella tela su san Trifone, che forse è in larga parte opera di collaboratori[1].
In queste opere, anche le migliori, il linguaggio di Carpaccio risulta ormai isolato nel contesto veneziano, quando in apertura del XVI secolo erano attivi gli stranieri Leonardo da Vinci, Albrecht Dürer e Fra Bartolomeo, mentre tra i pittori locali si andava consumando la rivoluzione del colore di Giorgione, Tiziano, Sebastiano del Piombo e Lorenzo Lotto; inoltre arrivavano le prime avvisaglie del classicismo instaurato tra Firenze e Roma da artisti come Raffaello e Michelangelo. Carpaccio non riuscì ad assorbire le novità del conterraneo Giovanni Bellini, e le sue opere iniziavano rapidamente ad apparire arcaizzanti[1].
Nel 1508 l'artista fu profondamente turbato quando venne chiamato a dare un giudizio, con Lazzaro Bastiani, sugli affreschi di Giorgione al Fondaco dei Tedeschi per valutarne il valore e quindi il compenso per l'artefice. L'arte di quest'ultimo, con le sue figure monumentali e i colori densi e corposi che si fondono l'un l'altro morbidamente in gradazioni luminose di valore atmosferico, si distingueva da quella di qualsiasi altro pittore dell'epoca. Né Carpaccio poteva condividere l'approccio intimistico e irrequieto del reale operato da Lorenzo Lotto, così diverso dal suo, molto più analitico e fantasioso[1].
Scuola di Santa Maria degli Albanesi
Un certo disorientamento dell'artista, già precettibile negli ultimi teleri per gli Schiavoni, si manifestò ancora più evidente nel ciclo di Storie della Vergine, eseguite tra il 1504 e il 1508 per la Scuola di Santa Maria degli Albanesi, rivale di quella degli Schiavoni[1].
I cinque teleri, realizzati con il ricorso ad aiuti, sono oggi sparsi tra più musei: la Nascita della Vergine nell'Accademia Carrara di Bergamo, la Presentazione di Maria al tempio e il Miracolo della verga fiorita alla Pinacoteca di Brera di Milano, l'Annunciazione, la Visitazione e la Morte della Vergine alla Ca' d'Oro di Venezia[5].
L'inventiva e la tenuta coloristica di questo ciclo sono più povere e ciò è da imputare sia ai suoi collaboratori, sia al minor impegno richiesto dalla confraternita, ma soprattutto alle difficoltà dell'artista di rinnovarsi di fronte alla rivoluzione innescata da Giorgione[1].
Altre opere
Altre opere dei primi due decenni del Cinquecento sono caratterizzate da uno stile pittorico più elevato, con un rigore prospettico calibrato e una lucido accordo di luci, colori e ombre. Ne sono un esempio la Sacra Famiglia e due donatori della Fondazione Gubelkian di Lisbona (firmato e datato 1505) o la Sacra conversazione del Musée du Petit Palais di Avignone. Spiccano poi la Madonna leggente di Washington (ottobre 1505), modellata su una figura della Nascita della Vergine per la Scuola degli Albanesi, la grande pala di San Tommaso in gloria tra i santi Marco e Ludovico di Tolosa (1507), già nella chiesa di San Pietro Martire di Murano e oggi nella Staatsgalerie di Stoccarda, o la Morte della Vergine (1508) nella Pinacoteca nazionale di Ferrara, versione del tema di ben più alto rigore della prova nella Scuola di San Giorgio. Una grande pala è la Presentazione di Gesù al Tempio, del 1510, nelle Gallerie dell'Accademia, dove è evidente l'influsso di Giovanni Bellini, in particolare della Pala di San Giobbe, anche se i colori di Carpaccio sono più smaltati, legati a una nostalgica e ormai arcaica rievocazione dell'antonellismo[1].
Punto culminate della produzione di questi anni è il Ritratto di cavaliere, del 1510, con una ricca descrizione dei dettagli naturali[1].
Verso il 1510 Carpaccio completò la prima serie di teleri per la Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, che gli valse la qualifica di pittore ufficiale della Repubblica. Carpaccio di questa nomina fu molto orgoglioso, come si evince dalla lettera datata 15 agosto 1511 al marchese di Mantova Francesco Gonzaga, con la quale loda la sua Veduta di Gerusalemme appena inviata, ricordando che, a garanzia della qualità dell'opera, egli è «quel pictor dallo excell. Consilio de i Diece conducto per dipingere in Salla Granda, dove la Sig.a V.a se dignò a scendere sopra il solaro a veder l'opra nostra che è la historia de Ancona. Et il nome mio è dicto Victor Carpathio»[1].
La nomina coincide con un periodo di carenza di pittori a Venezia: nel 1510 era infatti morto Giorgione, e l'anno successivo partì per Roma Sebastiano del Piombo, mentre Lorenzo Lotto e il Pordenone erano occupati in peregrinazioni nell'Italia settentrionale e restava solo il vecchio Giovanni Bellini, che sarebbe morto nel 1516. In quegli anni iniziava però a emergere Tiziano, impegnato inizialmente soprattutto a Padova[1].
Scuola di Santo Stefano
Tra il 1511 e il 1520 realizza i cinque teleri con le Storie di santo Stefano per la Scuola di Santo Stefano, di cui ne rimangono solo quattro. Queste scene mostrano la ripetizione di modelli e schemi di dipinti passati, con maggiore cura nella descrizione delle vesti che non nelle fisionomie. Nonostante fossero meno apprezzate di quelle che sono ritenuti i suoi capolavori, l'artista riuscì a ottenere apprezzamenti critici grazie a scene come la sua Disputa di santo Stefano, dove l'ariosa ambientazione in una loggia è in contrasto con la pungente stravaganza degli edifici dello sfondo[1].
Nel 1513 dipinse una Cena in Emmaus per il banchiere e diarista veneziano Girolamo Priuli, opera donata in seguito da quest'ultimo al patriarca Antonio Contarini che volle ornare con essa la sua cappella nella chiesa di San Salvador.
Ultima produzione
Come altri celebrati maestri italiani della sua generazione (Perugino, Luca Signorelli, lo stesso Andrea Mantegna), dopo un periodo di successi visse una crisi intorno agli inizi del XVI secolo per le difficoltà ad assimilare gli apporti rivoluzionari e moderni di Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, Giorgione e Tiziano. Visse gli ultimi anni relegato in provincia, dove il suo stile ormai attardato trovava ancora ammiratori[6].
La tarda attività è riservata in parte alla provincia e condivisa con i figli Benedetto e Piero. In queste opere la qualità del colore e la forza espressiva vengono ancora meno, con un ricorso sempre più ampio agli aiuti di bottega. Ne sono un esempio il Polittico di Santa Fosca del 1514, o la pala per la chiesa di San Vidal a Venezia. Si manifesta nel frattempo un gusto per composizioni o parti delle composizioni sempre più affollate, come nei Diecimila martiri di Ararat del 1515[1].
Tra i polittici per chiese delle aree periferiche della Repubblica ci sono in questi anni opere per Capodistria (1516-1523), Pirano (1518), Pozzale (1519) e Chioggia (1520)[1].
Stimolarono il suo interesse solo due opere di questo periodo, quali il Leone di San Marco (1516), con un'allusiva veduta di Venezia, e l'allucinato Cristo morto (1520), cosparso di innumerevoli simboli di morte e con vari episodi frammentari della vita di Cristo nello sfondo, tutti legati alla fine della vita terrena di Cristo e alla caducità di quella dell'uomo[1].
Dal 1522 al 1523 fu impegnato in commissioni per il patriarca Antonio Contarini, e un documento del 28 ottobre 1525 lo dichiara ancora in vita. Il 26 giugno 1526 però, in una testimonianza, il figlio Pietro lo ricorda già morto[1].
Papa Alessandro III ad Ancona conferisce al doge Sebastiano Ziani l'insegna del parasole, 1510 circa, su tela, già a Venezia nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, distrutto nel 1577
Papa Alessandro III concede l'indulgenza nel giorno dell'Ascensione ai visitatori della basilica di San Marco (forse in collaborazione con Giovanni Bellini), 1510 circa, su tela, già a Venezia nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, distrutto nel 1577
La pietanza consistente in fettine sottilissime di controfiletto di manzo crudo disposte su un piatto e decorate alla Kandinskij, con una salsa che viene chiamata universale, inventata nel 1950 da Giuseppe Cipriani, proprietario e chef dell'Harry's Bar di Venezia. Cipriani intitolò tale piatto "Carpaccio" proprio in onore di Vittore Carpaccio, poiché il colore della carne cruda gli ricordava i colori intensi dei quadri del pittore veneziano, delle cui opere si teneva in quel periodo una mostra nel Palazzo Ducale di Venezia.[8][9] Secondo alcuni il quadro del Carpaccio che avrebbe ispirato Cipriani sarebbe la Predica di santo Stefano (Museo del Louvre, Parigi).[10] Il successo del "carpaccio" è stato tale che oggi tale termine non indica la ricetta originale dell'Harry's Bar, ma con esso si definisce genericamente un piatto a base di fettine di carne o pesce crudi o semi-crudi a cui vengono aggiunti olio e scaglie di formaggio grana o altri ingredienti a seconda della versione, e financo ricette a base di pietanze cotte (è il caso, ad esempio, del carpaccio di polpo, la cui ricetta prevede la cottura del polpo prima del procedimento di preparazione del carpaccio). Cipriani non era nuovo a contaminazioni tra pittura ed enogastronomia, avendo inventato nel 1948 il famoso cocktailBellini[11], a base di vino bianco frizzante (usualmente del prosecco o dello spumante brut) e polpa frullata fresca di pesca bianca. Di conseguenza il cocktail ha un caratteristico colore rosato, che ricordò a Cipriani il colore della toga di un santo in un dipinto del pittore Giovanni Bellini, al quale intitolò la bevanda, oggi diffusa nei bar di tutto il mondo.
^Galleria Franchetti alla Ca' d'Oro, su polomuseale.venezia.beniculturali.it. URL consultato il 28 ottobre 2022 (archiviato dall'url originale il 4 marzo 2016).
^ AA.VV., Vittore Carpaccio, in Pittori del Rinascimento, Firenze, Scala, 2007, ISBN9788881170999.