La Venere di Willendorf, anche nota come donna di Willendorf, è una statuetta di 11 cm d'altezza, scolpita in pietra calcarea e dipinta in ocra rossa,[1] non originaria della zona di rinvenimento, e risalente al 30.000-25.000 a.C.
Intorno al 1990, dopo un'accurata analisi della stratigrafia del luogo, e dopo precedenti datazioni che la ponevano inizialmente al 10.000 a.C. poi fino al 32.000 a.C., fu stimato che la statuetta fosse stata realizzata da 25.000 a 26.000 anni fa.[4] Inoltre, in base ad una ricerca condotta nel corso del 2022 dall'università di Vienna e dal Naturhistorisches Museum, è stato stabilito che il manufatto sarebbe stato realizzato nella zona dell'alto Garda, più precisamente in Trentino, presso Sega di Ala;[5] ciò è stato sostenuto in base alla presenza, rilevata sulle superfici della scultura, di un materiale chiamato oolite, limonite e sedimenti di conchiglie.[6]
Informazioni
La statua si colloca all'interno del culto della Madre Terra e del Femminile. La vulva e il seno sono gonfi e molto pronunciati, a rappresentare un significato di prosperità, e anche il colore rosso ocra col quale la statuetta è dipinta rimanda al rosso, colore archetipico della passione, e del sangue mestruale che annunciava la rinnovata capacità della donna di poter dar seguito di nuovo alla vita e mettere così a freno la paura dell'oblio. Le braccia sottili sono congiunte sul seno, e il volto non è visibile; la testa si direbbe coperta da trecce o da un qualche genere di copricapo di "perle".
Alcuni suggeriscono che, in una società di cacciatori e raccoglitori, molto scettici, la corpulenza e l'ovvia fertilità della donna potrebbero rappresentare un elevato status sociale, sicurezza e successo. Nell'ultimo secolo, si è scoperto con certezza che le società di provenienza delle veneri erano tutt'altro che nomadi; erano egualitarie e riservavano alla donna posti di potere (da non interpretare come potere di dominazione) proprio in virtù della dignità che le riconoscevano.[7]
Dopo la Venere di Willendorf, sono state rinvenute molte altre statuette di questo genere, spesso indicate proprio come "veneri" o "veneri paleolitiche
La statuetta fu rinvenuta nel 1908 dell'archeologia Josnef Szonbathy in un sito risalente al paleolitico in Austria
Nella cultura di massa
L'autore Michael Crichton nel suo romanzo fantascientifico Mangiatori di morte, descriveva un popolo, i Wendol (termine che indicava in realtà la "bruma nera", ossia la nebbia che accompagnava questa tribù nel compimento di razzie e massacri), i quali veneravano un culto di natura matriarcale, poiché guidati, nelle loro azioni, dal volere di una donna, la cui simbologia coincideva con la figura della Venere di Willendorf, i cui reperti venivano rinvenuti nei luoghi delle loro incursioni.
^(EN) Christopher Witcombe, Venus of Willendorf, su witcombe.sbc.edu, 2003. URL consultato il 21 luglio 2022 (archiviato dall'url originale il 3 aprile 2004).
^(EN) John J Reich e Lawrence Cunningham, Culture and Values: A Survey of the Humanities, 8ª ed., Boston, Cengage Learning, 2013, ISBN978-11-33-95122-3.
^ Riane Eisler, La Dea della natura e della spiritualità, in Joseph Campbell e Charles Musès (a cura di), I nomi della Dea - Il femminile nella divinità, traduzione di C. M. Carbone, Roma, Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, 1992, ISBN88-340-1077-9.
(DE) Wilhelm Angeli, Die Venus von Willendorf, Wien, Edition Wien, 1989, ISBN3-85058-035-0.
(DE) Walpurga Antl-Weiser, Die Frau von W. – Die Venus von Willendorf, ihre Zeit und die Geschichte(n) um ihre Auffindung, Wien, Verlag des Naturhistorischen Museums, 2008, ISBN978-3-902421-25-8.
(DE) Alexander Binsteiner, Rätsel der Steinzeit zwischen Donau und Alpen, Linz, Magistrat der Landeshauptstadt Linz, 2011, ISBN978-3-85484-440-2.
(DE) E. Drössler, Die Venus der Eiszeit, Lipsia, 1967.
(DE) Johannes-Wolfgang Neugebauer, Zur Auffindung der Venus von Willendorf, 1996, pp. 4–9.
(DE) Philip R. Nigst, Willendorf II, Erlangen, Hugo Obermaier – Gesellschaft für Erforschung des Eiszeitalters und der Steinzeit e.V. (55. Tagung in Wien), 2013, pp. 59-66.