Per il suo consistente operato nella bottega di Giotto ha sempre rivestito, tra i giotteschi della prima generazione, un posto di preminenza. Tuttavia questo ruolo ha sempre implicato una valutazione tutto sommato negativa della sua attività, quale eterno "allievo" e mai "maestro". Negli studi del secondo dopoguerra si è invece cercato di ridare il giusto rilievo alla sua figura, quale interprete a sua volta originale e ricco di spunti per le generazioni successive.
Vita e opere
Figlio di Gaddo di Zanobi detto Gaddo Gaddi, fu nella bottega di Giotto dal 1313 al 1337, anno della morte del maestro.
Padre dei pittori Giovanni, Agnolo e Niccolò Gaddi, ebbe anche un quarto figlio, Zanobi, che non intraprese la carriera di artista, ma si diede con successo alla mercatura, contribuendo poi alla crescita economica e sociale della famiglia. Un quinto figlio fu Francesco. Taddeo fu probabilmente, come d'altra parte afferma il Vasari, il discepolo di Giotto con maggior talento o comunque quello che meglio riuscì a portare avanti lo stile del grande maestro. Nel 1347 è ricordato in testa a un elenco dei migliori pittori di Firenze.
Tra le sue opere la più importante è il ciclo degli affreschi con Storie della Vergine nella Cappella Baroncelli della Basilica di Santa Croce a Firenze (1328-1338). Poco dopo dovette attendere anche alla pittura delle Formelle dell'armadio della sacrestia di Santa Croce, oggi alla Galleria dell'Accademia a Firenze, a Monaco di Baviera e a Berlino. In quest'opera prestigiosa dimostrò di aver messo a frutto gli insegnamenti di Giotto, disponendo con una notevole libertà narrativa le figure nelle scene, che risultano più affollate di quelle del suo maestro. Riprende inoltre la sperimentazione della prospettiva negli sfondi architettonici e giunge a risultati anche arditi, come nella scalinata obliqua e spezzata nella Presentazione della Vergine al tempio.
Pur nell'ambito "giottesco", Taddeo Gaddi nelle opere più mature ha uno stile inconfondibile, con a volte effetti ricercati di luce notturna, quasi un unicum nella pittura trecentesca dell'Italia centrale. Gli impianti spaziali ricercati in alcune sue opere sono spesso maestosi e solenni, avvicinandosi in questo a Maso di Banco. I lineamenti dei volti delicati e morbidi sono indicativi dello sviluppo tardo dell'arte di Taddeo.
Fortuna critica
Tra le fonti antiche che si occupano di Taddeo Gaddi ci sono Franco Sacchetti (Trecentonovelle, CXXXVI), Cennino Cennini (Libro dell'Arte), Lorenzo Ghiberti (Commentari) e Giorgio Vasari, che incluse una sua biografia nelle Vite. Lo stesso Cennini, in apertura della sua opera, chiarifica subito la sua diretta discendenza artistica da Giotto specificando che «Agnolo di Taddeo da Firenze [fu] mio maestro, il quale imparò la detta arte da Taddeo suo padre; il quale suo padre fu battezzato da Giotto e fu suo discepolo anni XXIIII». Quella che per Cennini è una rivendicazione della propria "patente" artistica (in polemica magari con i fratelli Orcagna, che andavano per la maggiore ma non potevano vantare una tale genealogia artistica), col tempo si trasformò, innanzitutto proprio per Taddeo, come una pesante eredità del suo maestro, da tramandare e consegnare al figlio meno corrotta possibile[1]. A mettere cattiva luce sull'intero secondo Trecento fiorentino era stato anche la novella 136 del Sacchetti, in cui un gruppo di pittori e scultori fiorentini verso il 1360 si ritrova a cenare insieme sul colle di San Miniato al Monte, dopo aver prestato una consulenza artistica per stimare il lavoro di qualche collega. Andrea Orcagna, il parvenu, si arrischia a chiedere chi fosse il maggior pittore "da Giotto in fuori" (magari sperando che fosse proprio il suo nome a uscire), e i colleghi si prodigano in una serie di nomi, da Cimabue a Bernardo Daddi, da Stefano a Buonamico Buffalmacco, finché si decide di dare la parola al più anziano, Taddeo, quello che meglio aveva conosciuto il grande Giotto. La risposta dell'artista è lucida e lapidaria: «questa arte è venuta e vien mancando ogni dì»: cioè nessuno, perché la capacità artistica di Giotto va diminuendo ogni giorno, in un panorama quindi di progressiva decadenza[2].
Filippo Villani paragonò Taddeo a Dinocrate e Vitruvio, facendo credere a Vasari che egli fosse stato anche architetto. Lo storico aretino gli assegnò così il ponte dei Frescobaldi, il Ponte Vecchio (dato oggi a Neri di Fioravante), la parte superiore di Orsanmichele e il completamento del campanile di Giotto: l'infondatezza di tali attribuzioni venne poi dimostrata da Gaetano Milanesi nel suo commento alle Vite[3]. Probabilmente l'affermazione del Villani («Taddeus insuper aedificia tanta arte depinxit, ut alter Dynocrates vel Victruvius qui architecturae artem scripserit, videretur») è solo da intendersi come un elogio della sua capacità nel disegnare l'architettura nelle sue opere[3].
I primi contributi moderni alla critica su Taddeo Gaddi risalgono al Cavalcaselle, ad Adolfo Venturi (1907), a van Marle, che seguirono fondamentalmente la posizione tradizionale di lodarlo come principale allievo di Giotto, ma senza considerarlo come maestro sufficientemente indipendente. In tale solco si mosse anche Pietro Toesca nell'opera Trecento[4].
Per una comprensione più approfondita e obiettiva dell'arte del Gaddi si devono attendere due articoli di Roberto Longhi su Paragone del 1959 (nn. 109 e 111, Qualità e industria in Taddeo Gaddi). A ciò seguirono una serie di contributi alla ricostruzione del catalogo e a una più obiettiva valutazione critica dell'artista ad opera di Klara Steinweg (1964, Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz), Ilaria Toesca (1950, Paragone n. 3), Boskovits (1964, Catalogo del Museo di Esztergom), Luciano Bellosi (Paragone 187). Un elenco completo della bibliografia sul pittore si trova nell'articolo di Gandolfo su La critica d'arte nuova, 13-14, 1956, pp. 32–55[4].
E. Neri Lusanna, GADDI, Taddeo, in Enciclopedia dell'arte medievale, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1991-2000. URL consultato il 30 novembre 2015.