I rumeni in Italia sono la principale comunità migrante in Italia. Con oltre 1 072 001 persone residenti in Italia al 2022[1], grazie alla libertà di circolazione loro concessa in quanto cittadini dell'Unione europea, ed anche la somiglianza tra la lingua romena e la lingua italiana, che rende l'italiano per i romeni facile da imparare, i romeni hanno rapidamente superato le comunità immigrate storicamente più presenti in Italia, ovvero albanesi e marocchini.
Caratteristico di tutto il XX secolo, ma accresciutosi a seguito della Rivoluzione romena del 1989, il fenomeno si è ulteriormente accentuato dopo il 2002, con la liberalizzazione dei visti turistici in Romania[2], e soprattutto dopo il 2007[3][4][5], in seguito all'ingresso della Romania nell'Unione europea e al conseguente godimento per i cittadini rumeni del beneficio della libera circolazione delle persone.
In particolare, nel decennio tra il 2001 e il 2011 la comunità romena in Italia si è di fatto decuplicata, fino a diventare nel 2008 la prima comunità straniera nel territorio nazionale[5] e a sfiorare il milione di persone nel 2012, arrivando a rappresentare circa un quinto di tutti gli stranieri residenti in Italia[6][7], oltre che la più grande comunità rumena all'estero in tutta l'Unione Europea[8].
Tali dati sono relativi ai cittadini romeni residenti in Italia e non tengono dunque conto di coloro che nel frattempo hanno ottenuto la cittadinanza italiana per naturalizzazione, che, ai sensi dell'art. 9 della Legge 5 febbraio 1992, n. 91, per i cittadini di uno degli Stati membri dell'Unione Europea può essere chiesta dopo quattro anni di residenza nel territorio italiano. Non sono disponibili in merito dati di dettaglio per Paese e per anno ma si stima che in totale le naturalizzazioni in Italia siano pari a circa il 15% del totale degli stranieri residenti[9]. Non si tiene altresì conto dei dati relativi alla presenza in Italia di rom con cittadinanza romena[10].
Secondo diversi analisti, i fattori che hanno favorito questa massiccia emigrazione dalla Romania verso l'Italia sono essenzialmente geopolitici (tra questi la prossimità territoriale e la caduta delle frontiere intereuropee), economici (il basso indice di sviluppo umano in Romania e l'economicità dei trasferimenti) e culturali (in particolare la vicinanza linguistica e culturale). Probabilmente non trascurabile è inoltre una certa «trazione» storico-culturale creata fra i due popoli dalla comunità italo-romena in Romania[10].
Demografia
Cittadini romeni residenti in Italia Dati ISTAT anni 2001-2020[11]
La gran parte (circa il 60%) dei romeni stabilitisi in Italia proviene dalla regione della Moldavia romena[29]. La distribuzione sul territorio italiano rispecchia per grandi linee quella generale degli stranieri residenti nella penisola, con una netta prevalenza nell'Italia settentrionale e Centrale e in particolare nel Lazio (192 983), Lombardia (167 453), Piemonte (132 970) e Veneto (126 497); le città in cui sono presenti le maggiori comunità romene sono Roma (75 305), Torino (44 383), Milano (13 440), Bologna (9 726) e Verona (9 207).[7]
Al 31 dicembre 2020 i residenti Romeni in Italia sono 1 076 412 confermandosi la prima comunità straniera.
Attività economiche
Circa l'80% degli immigrati romeni in Italia ha conseguito il diploma e circa il 10% di essi è in possesso di una laurea[30]. Secondo dati delle camere di commercio, a marzo 2013 risultavano iscritte nel Registro del Commercio in Italia 44817 ditte individuali relative a cittadini romeni, per circa il 70% relative al settore delle costruzioni e localizzate per il 95% nel Nord e nel Centro Italia. Sono inoltre registrate 29.372 società in cui uno degli azionari o dei dirigenti è un cittadino romeno[31].
Religione
Dal punto di vista religioso i romeni in Italia sono in gran parte riuniti sotto la Eparchia ortodossa romena d'Italia; grazie al contributo dell'immigrazione romena, si stima che dal 2008 la religione ortodossa sia la seconda comunità religiosa in Italia dopo quella cattolica, con circa 1,3 milioni di credenti[32].
L'impatto sul sistema lavorativo e socio-economico italiano
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Commento: Dati relativi alle primissime fasi del fenomeno migratorio
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Essendo il boom migratorio romeno il più consistente fra quelli avvenuti in seguito al cosiddetto «allargamento a est» dell'Unione europea tra il 2004 e il 2007 e avendo interessato l'Italia più di ogni altro Stato comunitario (contrariamente a quanto accaduto per i flussi demografici provenienti da altri Paesi dell'Europa orientale), esso è stato oggetto di studi e previsioni circa il suo potenziale impatto sul mercato del lavoro e sui sistemi assistenziali, sanitari e previdenziali italiani.
La notevole differenza fra l'indice di sviluppo umano italiano e quello romeno non sembrerebbe tuttavia poter creare significativi aggravi alla spesa sanitaria e assistenziale italiana, grazie ad alcune limitazioni alla libertà di circolazione dei cittadini inoccupati che la Comunità aveva predisposto già in previsione della prima fase di allargamento (nel 2004)[33], al fine di evitare fenomeni di «turismo sociale» verso i Paesi più benestanti dell'Unione. Inoltre, simili eventualità sembrerebbero trascurabili anche da un punto di vista empirico, essendo emerso da alcuni studi che l'emigrazione dai nuovi Stati membri è prevalentemente tesa ad un trasferimento stabile e con finalità occupazionali[34].
Anche quanto alla previdenza sociale, il sistema italiano non dovrebbe subire particolari ripercussioni finanziarie. Essendo esso finanziato prevalentemente «a contribuzione» (o secondo il «modello bismarckiano») e solo in parte dalla fiscalità generale (o secondo il «modello beveridgiano»), le prestazioni previdenziali erogate sono finanziate con contributi a carico dei lavoratori stessi e dei loro datori di lavoro; inoltre, nel caso le prestazioni venissero erogate dallo Stato italiano a causa della residenza in Italia del beneficiario, ma fossero state maturate anche a seguito di una sua precedente contribuzione a favore dell'Istituto previdenziale del Paese d'origine, nel cui territorio egli era impiegato, l'Istituto erogante italiano può rivalersipro quota proprio su quello del Paese d'origine, secondo i meccanismi di totalizzazione previsti dal Regolamento UE n° 883 del 2004. Oltretutto, nel contesto di sistemi previdenziali ispirati al modello bismarckiano, quello italiano è fra quelli in cui la contribuzione previdenziale è organizzata secondo un modello di solidarietà intergenerazionale, in base al quale le prestazioni pensionistiche non sono finanziate con i contributi precedentemente versati dagli stessi beneficiari, bensì con quelli versati dalla popolazione attiva del momento, con la conseguenza che l'aumento numerico[35] della popolazione occupata ingenera un aumento della contribuzione previdenziale a vantaggio dell'erogazione delle prestazioni pensionistiche attualmente in corso, di cui godono prevalentemente cittadini italiani, non coperte dall'insufficiente contribuzione degli attuali lavoratori italiani e altrimenti da finanziare ricorrendo alla fiscalità generale[36].
^ Andrea Stuppini, Molti immigrati e pochi nuovi italiani?, su stranieriinitalia.it, 20 settembre 2012. URL consultato il 18 ottobre 2014 (archiviato dall'url originale il 23 marzo 2015).
^A parte i dati relativi ai censimenti nazionali del 2001 e del 2011, gli altri dati sono rilevati al 31 dicembre dell'anno indicato, calcolati dall'ISTAT in base al bilancio demografico nazionale.
^(EN) Paula Baciu, What brings Romanians to the streets, su europeandatajournalism.eu, VoxEurop/EDJNet, 10 settembre 2018. URL consultato l'11 settembre 2018.
^ Marco Tosatti, Italia: Ortodossia supera Islam, su lastampa.it, 8 marzo 2010. URL consultato il 18 ottobre 2014 (archiviato dall'url originale il 13 ottobre 2014).
^Limitazioni previste dalla Direttiva UE n° 38 del 2004
^Anche se non percentuale, come avviene negli anni della grande recessione.
^ Barbara Grandi, Diritti sociali e allargamento UE; le problematiche connesse all'estensione dei diritti, in Rivista del diritto della sicurezza sociale, n. 2, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 580-592.