Fu alunno del Liceo classico Umberto I di Palermo.[1] Dopo i bombardamenti alleati che sconvolsero Palermo, ultimò gli studi liceali percorrendo a piedi quotidianamente il tratto di strada che separava Misilmeri, dove viveva, da Palermo, perché la ferrovia era ormai inutilizzabile. Conseguì la maturità nel 1943. Si iscrisse poi alla Facoltà di Giurisprudenza dell'ateneo della stessa città e si laureò il 20 luglio 1947.[2][3] Durante gli studi, per alleviare l'impegno economico sostenuto dalla famiglia, aveva lavorato all'ufficio del registro di Misilmeri.[4] Qui conobbe anche Agata Passalacqua, giovane docente di scuola media che sarebbe poi divenuta sua moglie.[4]
Nel 1970 gli fu assegnato il caso della cosiddetta "strage di viale Lazio", in cui figuravano molti nomi di criminali di mafia destinati a successiva maggior notorietà.[4] Nel 1975, giunto al grado di magistrato di Corte d'Appello, fu nominato Consigliere Istruttore Aggiunto. Divenne magistrato di Cassazione e Consigliere Istruttore dopo altri quattro anni e come tale,[4] in quel 1979 in cui fu ucciso Cesare Terranova, fu chiamato alla carica di dirigente dell'Ufficio in cui già lavorava sull'onda dell'emozione per quel delitto "eccellente".[5][6]
Altri omicidi seguirono non molto tempo dopo, nel 1980, quando Cosa nostra uccise il capitano dell'Arma dei CarabinieriEmanuele Basile (4 maggio) e il procuratore Gaetano Costa (6 agosto), amico di Chinnici, con cui aveva condiviso indagini sulla mafia, i cui esiti i due giudici si scambiavano in tutta riservatezza dentro un ascensore di servizio del palazzo di Giustizia.[7] Dopo questo omicidio[8] Chinnici ebbe l'idea di istituire una struttura collaborativa fra i magistrati dell'Ufficio (poi nota come pool antimafia),[9] conscio che l'isolamento dei servitori dello Stato li espone all'annientamento e li rende vulnerabili, in particolare i giudici e i poliziotti poiché, uccidendo chi indaga da solo, si seppellisce con lui anche il portato delle sue indagini.[4][7]
Entrarono a far parte della sua squadra alcuni giovani magistrati fra i quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Con quest'ultimo condivideva il giorno di nascita, il 19 gennaio. Altro avrebbe legato le tre figure qualche anno dopo. Disse Chinnici in un'intervista:
«Un mio orgoglio particolare è una dichiarazione degli americani secondo cui l'Ufficio Istruzione di Palermo è un centro pilota della lotta antimafia, un esempio per le altre magistrature d'Italia. I magistrati dell'Ufficio Istruzione sono un gruppo compatto, attivo e battagliero.[2]»
Tra le indagini più delicate di quel periodo, vi fu la cosiddetta "inchiesta Spatola", che riguardava una pericolosa banda di trafficanti internazionali di eroina ed era scaturita dai mandati di cattura che costarono la vita al procuratore Costa: Chinnici non esitò ad affidare l'indagine a Falcone, il quale avviò rivoluzionarie verifiche bancarie sui movimenti di denaro sporco e sulle misteriose relazioni dei trafficanti con il bancarottiere Michele Sindona.[10] Chinnici coordinò anche le scottanti inchieste sui "delitti politici" del segretario provinciale della DC Michele Reina, del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, del segretario regionale del PCI Pio La Torre e del Prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa.[11][12][13]
Nel luglio 1982, sulla scrivania di Chinnici arrivò il cosiddetto "Rapporto dei 162" (Greco Michele + 161), redatto congiuntamente da Polizia e Carabinieri che metteva in luce, per la prima volta, gli schieramenti mafiosi coinvolti nella seconda guerra di mafia allora in corso, sia i gruppi "perdenti" (la fazione Bontate-Inzerillo-Badalamenti) sia quelli "vincenti" (i Corleonesi di Totò Riina), e i relativi omicidi con scrupolose verifiche e riscontri, ottenuti anche servendosi di preziosi "confidenti": Chinnici decise di affidare l'istruttoria riguardante le indagini basate sul Rapporto sempre a Giovanni Falcone e il risultato di tale imponente lavoro sarà il primo grande processo a Cosa nostra, il cosiddetto maxi processo di Palermo.[14][4] Il 17 agosto, poco più di un mese dopo il deposito del rapporto, l'Ufficio istruzione emise un mandato di cattura per 87 persone - appartenenti sia all'ala moderata sia a quella emergente (fra cui i latitanti Giuseppe, Salvatore e Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Salvatore Montalto) - per associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, per fatti commessi fino al 12 luglio di quell'anno.[15] Nel 1983 Chinnici emise un altro mandato di cattura per gli stessi indagati e per gli stessi reati contestati fino al 18 gennaio di quell'anno. Il 31 maggio Chinnici emise un terzo mandato per 125 persone per associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di droga contestata fino al 5 maggio. Sempre nell'ambito della stessa inchiesta, Chinnici coordinò un'operazione conclusasi con un quarto mandato emesso da Giovanni Falcone il 9 luglio a carico di 14 indagati, tra i quali Michele Greco, Filippo Marchese, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano; tra i reati ipotizzati il tentato omicidio di Salvatore Contorno e l'omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, di tre carabinieri e dei boss Alfio Ferlito (la "strage della circonvallazione"), Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo.[16]
Sulla base delle risultanze del Rapporto dei 162, Chinnici avrebbe voluto emettere un mandato di cattura per associazione mafiosa nei confronti dei potenti imprenditori Nino e Ignazio Salvo[17] ed espresse tale volontà ad alcuni suoi collaboratori (i funzionari di polizia Ninni Cassarà[18] e Francesco Accordino e il capitano dei Carabinieri Angiolo Pellegrini) ma Falcone si oppose, affermando che occorrevano più prove per procedere all'arresto.[19]
L'attività culturale
Chinnici partecipò in qualità di relatore a molti congressi e convegni giuridici e socioculturali, e credeva nel coinvolgimento dei giovani nella lotta contro la mafia, recandosi nelle scuole per parlare agli studenti della mafia e del pericolo della droga.[3] Questo pericolo ebbe a esplicitare poco prima di morire, in una nota intervista a I Siciliani di Pippo Fava:[20]
«[s]ono i giovani che dovranno prendere domani in pugno le sorti della società, ed è quindi giusto che abbiano le idee chiare. Quando io parlo ai giovani della necessità di lottare la droga, praticamente indico uno dei mezzi più potenti per combattere la mafia. In questo tempo storico infatti il mercato della droga costituisce senza dubbio lo strumento di potere e guadagno più importante. Nella sola Palermo c'è un fatturato di droga di almeno quattrocento milioni al giorno, a Roma e Milano addirittura di tre o quattro miliardi. Siamo in presenza di una immane ricchezza criminale che è rivolta soprattutto contro i giovani, contro la vita, la coscienza, la salute dei giovani. Il rifiuto della droga costituisce l'arma più potente dei giovani contro la mafia.»
In altra occasione aveva detto:
«Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi [...] fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai.[21]»
Fu anche uno studioso del fenomeno mafioso, del quale diede in più occasioni definizioni molto decise. Nella sua relazione sulla mafia tenuta nell'incontro di studio per magistrati organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura a Grottaferrata il 3 luglio 1978 così si era espresso:
«Riprendendo il filo del nostro discorso, prima di occuparci della mafia del periodo che va dall'unificazione del Regno d'Italia alla prima guerra mondiale e all'avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell'unificazione, non era mai esistita in Sicilia.»
e più oltre aggiunge:
«La mafia [...] nasce e si sviluppa subito dopo l'unificazione del Regno d'Italia.[22]»
Più tardi, nella detta intervista con I Siciliani, approfondì la definizione:
«La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione della ricchezza. Prima era il feudo da difendere, ora sono i grandi appalti pubblici, i mercati più opulenti, i contrabbandi che percorrono il mondo e amministrano migliaia di miliardi. La mafia è dunque tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. [...] La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, una alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere. Se lei mi vuole chiedere come questo rapporto di complicità si concreti, con quali uomini del potere, con quali forme di alleanza criminale, non posso certo scendere nel dettaglio. Sarebbe come riferire della intenzione o della direzione di indagini.[20]»
In una delle sue ultime interviste, Chinnici disse:
«La cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un Magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare.[23]»
Rocco Chinnici fu ucciso alle 8 del mattino del 29 luglio 1983 con una Fiat 126 verde, imbottita con 75 kg di esplosivo parcheggiata davanti alla sua abitazione in via Giuseppe Pipitone Federico a Palermo,[24] all'età di cinquantotto anni. Ad azionare il telecomando che provocò l'esplosione fu Antonino Madonia, boss di Resuttana, che si trovava nascosto nel cassone di un furgone rubato parcheggiato nelle vicinanze di via G. Pipitone Federico.[25] Accanto al suo corpo giacevano altre tre vittime raggiunte in pieno dall'esplosione: il maresciallo dei Carabinieri Mario Trapassi e l'appuntato Salvatore Bartolotta, componenti della scorta del magistrato, e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico in cui Chinnici viveva, Stefano Li Sacchi. L'unico superstite fu l'autista Giovanni Paparcuri, che riportò gravi ferite. I primi ad accorrere sul teatro della strage furono due dei figli di Chinnici, Elvira e Giovanni, rispettivamente di 24 e 19 anni, che erano in casa al momento dell'esplosione. Dopo i funerali, la salma di Chinnici venne tumulata presso il cimitero comunale di Misilmeri, suo paese natale.
Dopo la strage di via Pipitone Federico, i familiari del giudice Chinnici trovarono tra le sue carte un'agenda su cui erano annotati una serie di pensieri, appunti e considerazioni in merito alle situazioni che viveva, in particolare riguardanti l'ambito della sua vita professionale: si leggevano commenti molto pesanti soprattutto sull'attività dei colleghi della Procura di Palermo (Giovanni Pizzillo, Ugo Viola, Francesco Scozzari e Vincenzo Pajno), accusati addirittura da Chinnici di complicità con ambienti mafiosi e di ostacolare le indagini del suo ufficio.[29][30] La famiglia consegnò il "diario" alla Procura di Caltanissetta, che si occupava delle indagini sulla strage, che a sua volta lo trasmise al Consiglio Superiore della Magistratura, la quale aprì un procedimento nei confronti dei magistrati citati.[31] Falcone, convocato in audizione davanti al CSM, affermò:
«Il collega Chinnici prendeva appunti su tutti gli episodi che gli apparivano inconsueti e questo perché temeva che le persone che potessero volere la sua morte avrebbero potuto annidarsi anche all’interno del palazzo di giustizia. Egli mi sollecitava a fare altrettanto, dicendomi che in caso di una mia morte violenta gli appunti avrebbero potuto costituire una traccia per risalire agli assassini...»
La pubblicazione di ampi stralci del "diario" sulla stampa causò numerose polemiche, con conseguente imbarazzo e preoccupazione nelle Istituzioni e negli uffici giudiziari coinvolti.[32] Infine nel settembre 1983 il CSM chiuse il caso, disponendo il trasferimento d'ufficio nei confronti del solo Scozzari, che invece preferì dimettersi spontaneamente dalla magistratura.[33][34]
Commemorazioni
«Né la generale disattenzione né la pericolosa e diffusa tentazione alla convivenza col fenomeno mafioso - spesso confinante con la collusione - scoraggiarono mai quest'uomo, che aveva, come una volta mi disse, la "religione del lavoro".»
Nel 2014 la figlia Caterina, anche lei magistrato, ha pubblicato un libro di ricordi dal titolo È così lieve il tuo bacio sulla fronte.[40] Attualmente è europarlamentare di Forza Italia.
Nel 2023 è stato pubblicato il libro "Trecento giorni di sole -La vita di mio padre Rocco, un giudice scomodo" (Ed. Mondadori - Coll. Ingrandimenti) scritto dal figlio avvocato Giovanni Chinnici.
«Magistrato tenacemente impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata, consapevole dei rischi cui andava incontro quale Capo dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, dedicava ogni sua energia a respingere con rigorosa coerenza la sfida sempre più minacciosa lanciata dalle organizzazioni mafiose allo Stato democratico. Barbaramente trucidato In un proditorio agguato, tesogli con efferata ferocia, sacrificava la sua vita al servizio della giustizia, dello Stato e delle istituzioni» — Palermo, 29 luglio 1983[44]
^Elena Invernizzi, Stefano Paolocci, Un orsacchiotto con le batterie. Il depistaggio sulla strage di via d'Amelio, Round Robin Editrice, 2012 - ISBN 889573162X.
«Con
Sergio Castellitto e con Cristiana Dell’Anna, Manuela Ventura, Virginia La Tella, Luigi Imola, Bernardo Casertano, Paolo Giangrasso, Bruno Torrisi, Maurizio Puglisi. Regia di Michele Soavi.»
Manfredi Giffone, Fabrizio Longo, Alessandro Parodi, Un fatto umano - Storia del pool antimafia, Einaudi Stile Libero, 2011, graphic novel, ISBN 978-88-06-19863-3
Antonella Mascali, Lotta civile. Contro le mafie e l'illegalità, Chiarelettere 2009
Alessandra Dino, L'innovazione di Rocco Chinnici, in AA.VV., "La mafia esiste ancora. Mafia e antimafia prima e dopo le stragi del 1992", Roma, l'Unità, 2004, pp. 78–80
Fabio De Pasquale - Eleonora Iannelli, Così non si può vivere. Rocco Chinnici: la storia mai raccontata del giudice che sfidò gli intoccabili, Roma, Castelvecchi Editore, 2013
Caterina Chinnici, È così lieve il tuo bacio sulla fronte, Mondadori, 2015
Giovanni Chinnici, Trecento giorni di sole -La vita di mio padre Rocco, un giudice scomodo Mondadori - Ingrandimenti - 2013