Nel settembre 1929 si stabilì a Lugano, dove si unì agli altri esuli antifascisti e fu stretto collaboratore di Randolfo Pacciardi per il giornale Libera Stampa.[1] Aiutò Odoardo Plinio Masini a impiantare un magazzino di commestibili con retrobottega adibito a solotto-libreria, dove si incontravano i più importanti profughi antifascisti italiani.[3]
Nel febbraio 1931, gli esponenti di Giustizia e Libertà rifugiati a Parigi complottarono di assassinare Benito Mussolini, e Pacciardi offrì la collaborazione della «centrale» luganese, affidando a Luigi Delfini, accompagnato dall'anarchico Ersilio Belloni, il compito di recapitare a Roma «una bomba per il duce», confezionata dall'ingegnere Giobbe Giopp, un repubblicano esperto di esplosivi.[4] I due rientrarono clandestinamente in Italia passando dalla valle di Muggio, con l'obiettivo di raggiungere la capitale e stabilirsi in un appartamento in via del Vantaggio da utilizzarsi come base operativa.[1] Tuttavia, durante la traversata del confine, Delfini si smarrì e i due attentatori arrivarono a Roma in date diverse. A causa di una lettera intercettata dalla polizia fascista, in cui si parlava dell'intenzione impiantare in via del Vantaggio una tipografia clandestina, Belloni fu subito individuato, arrestato, tradotto in carcere e torturato, finendo per rivelare i dettagli del piano.[5]
Delfini, giunto a Roma in un secondo momento, fu riconosciuto e arrestato il 2 marzo 1931. Sconosciuta è la sorte della bomba, in quanto Delfini sostenne sotto tortura di averla gettata nel lago di Como dopo le vicissitudini dell'ingresso clandestino in Italia. In un rapporto del 28 marzo 1931, il questore di Roma Salvatore Cocchia definì Delfini «il più pericoloso ed il più infido degli arrestati, capace di ricorrere a qualsiasi trucco per nascondere la verità, e non ha mai, durante tutti i lunghissimi interrogatori subiti, fatta alcuna spontanea dichiarazione».[3] Il tribunale speciale per la difesa dello Stato condannò i due cospiratori a trent'anni di carcere. Le leggi eccezionali fatte approvare da Mussolini prevedevano la pena di morte per chi avesse progettato di attentare alla vita del Duce, ma a Delfini fu risparmiata l'esecuzione solo perché il corpo del reato (la bomba) non fu mai trovato.[4][5]
Liberato nel settembre 1943, riprese a fare attività politica nel Partito Repubblicano Italiano, ricoprendo gli incarichi di segretario provinciale a Grosseto e membro della direzione nazionale.[2] Nel 1956 venne eletto al consiglio comunale del capoluogo maremmano.[6]
Morì a Grosseto il 14 aprile 1993 e fu tumulato nel cimitero di Sterpeto.[2]