Le lingue bantu (ISO 639-2 e ISO 639-5 bnt) (o bantù; in inglese note anche come narrow bantu, ossia stretto bantu) sono una sottofamiglia di lingue africane, che fa parte della famiglia delle lingue niger-kordofaniane (dette anche lingue "Niger-Congo").
Le lingue bantu sono il raggruppamento di lingue più parlato in Africa, sia in termini di numero di parlanti (310 milioni) che di diffusione geografica, dal momento che in tutti gli Stati africani a sud del Camerun, della Repubblica Centrafricana e del Kenya (cioè approssimativamente in tutta la parte di continente a sud dell'Equatore) si parla almeno una lingua bantu.
Questa distribuzione è il risultato delle grandi migrazioni delle popolazioni bantu (agricoltori e allevatori) che, originariamente stanziate nella regione tra gli attuali Camerun e Nigeria, si diffusero in quasi tutta l'Africa centrale e meridionale con una serie di ripetute migrazioni compiute nell'arco di alcuni millenni.
Vengono identificate più di 500 lingue bantu;[1] la lingua più diffusa come numero totale di parlanti è lo swahili, che rappresenta una sorta di lingua franca dell'Africa orientale (Tanzania, Uganda, Kenya e Rep. Dem del Congo) e viene spesso parlata come seconda lingua; le lingue bantu più diffuse per numero di parlanti madrelingua sono invece lo shona dello Zimbabwe (10,8 milioni),[2] lo zulu (Sudafrica, 10,3 milioni),[3] il kirundi (10,1 milioni),[4] il chewa (8,7 milioni),[5] lo xhosa (7,8 milioni)[6] e il kinyarwanda (7,2 milioni).[7]
Il nome "bantu", nella maggior parte delle lingue del gruppo, significa "gente" (-ntu indica una persona, e il prefisso ba- produce una forma plurale); questo termine venne usato per raggruppare le lingue bantu per la prima volta[8] dal linguista tedesco W. Bleek nella seconda metà dell'ottocento.
Più tardi, nel 1948, il linguista inglese Malcolm Guthrie propose una classificazione delle lingue bantu basata su "zone" (etichettate con lettere), che si basavano su criteri essenzialmente geografici più che genetici. Questa classificazione, con alcune varianti successive (creazione di una nuova zona, la J, e spostamenti di alcuni sottogruppi da una zona all'altra), è la classificazione ancor oggi maggiormente utilizzata.[1][9] Ogni zona comprende diversi sottogruppi di lingue, generalmente simili fra loro e in alcuni casi con un elevato livello di mutua intelligibilità, che vengono indicati con un codice numerico con decine (ad es. le lingue nguni hanno un codice S40, le lingue sukuma-nyamwezi hanno invece il codice F20); le singole lingue sono invece indicate con un codice specifico, con la stessa decina e un numero variabile dell'unità (sempre restando nel sottogruppo delle lingue nguni, lo zulu ha il codice S42, il xhosa S41, lo swati S43, eccetera).[9]
Un'altra classificazione, basata su aspetti fonetici e lessicali, divide le lingue bantu in nordoccidentali (o della foresta) e centrali (o della savana); nel primo gruppo ricadono la maggior parte delle lingue delle zone A, B e C (ad eccezione di alcune che sono state successivamente riconosciute come non appartenenti al gruppo bantu), mentre al secondo appartengono le lingue delle altre zone, dalla D alla S.[1]
Le zone attualmente individuate sono 16:
La caratteristica più nota delle lingue bantu è l'uso estensivo del prefisso per definire la classe nominale di un sostantivo (con cui si fanno concordare anche aggettivi e verbi); queste classi nominali (sorta di "categorie" che corrispondono grosso modo ai generi grammaticali delle lingue indoeuropee) hanno un numero variabile a seconda delle lingue ma sono generalmente molto numerose (anche più di venti).
Le lingue bantu tendono a non presentare gruppi di consonanti consecutive. Questa caratteristica appare evidente se si osserva come sono state assimilate parole straniere, inglesi o di altre lingue. Per esempio, la parola chichewa per la "scuola", sukulu, deriva da school, con intercalazione di vocali; analogamente, la parola zulu per bicycle ("bicicletta") è ibhayisikili.
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