Inoltre, a causa dell'immigrazione, l'italiano viene parlato da comunità minori di locutori in diversi stati.
it
ita
ital1282
51-AAA-q
Zone dove è lingua maggioritaria
Zone dove è lingua minoritaria, o dove era maggioritaria in passato
L'italiano ([itaˈljaːno][Nota 1] ascoltaⓘ) è una lingua romanza parlata principalmente in Italia. Per ragioni storiche e geografiche, l'italiano è la lingua romanza meno divergente dal latino (complessivamente a pari merito, anche se in parametri diversi, con la lingua sarda).[2][3][4][5]
L'italiano è classificato al 23º posto tra le lingue per numero di parlanti nel mondo e, in Italia, è utilizzato da circa 58 milioni di residenti.[6] Nel 2015 era la lingua materna del 90,4% dei residenti in Italia,[7] che spesso lo acquisiscono e lo usano insieme alle varianti regionali dell'italiano, alle lingue regionali e ai dialetti. In Italia viene ampiamente usato per tutti i tipi di comunicazione della vita quotidiana e prevale largamente nei mezzi di comunicazione nazionali, nell'amministrazione pubblica dello Stato italiano e nell'editoria.
Oltre ad essere la lingua ufficiale dell'Italia[Nota 2] e di San Marino,[8], è anche una delle lingue ufficiali dell'Unione europea, della Svizzera,[9] della Città del Vaticano e del Sovrano militare ordine di Malta. È inoltre riconosciuto e tutelato come «lingua della minoranza nazionale italiana» dalla Costituzione slovena e croata nei territori in cui vivono popolazioni di dialetto istriano.
È diffuso nelle comunità di emigrazione italiana, è ampiamente noto anche per ragioni pratiche in diverse aree geografiche ed è una delle lingue straniere più studiate nel mondo.[8]
Dal punto di vista storico, l'italiano è una lingua codificata tra Quattrocento e Cinquecento sulla base del fiorentino letterario usato nel Trecento.[10]
L'italiano è una lingua neolatina, cioè derivata dal latino volgare parlato in Italia nell'antichità romana e profondamente trasformatosi nel corso dei secoli.[11]
Già in epoca classica esisteva un uso "volgare" del latino, pervenutoci attraverso testi non letterari, graffiti, iscrizioni non ufficiali o testi letterari attenti a riprodurre la lingua parlata, come accade spesso nella commedia.[12] Accanto a questo, esisteva un latino "letterario", adottato dagli scrittori classici e legato alla lingua scritta, ma anche alla lingua parlata dai ceti socialmente più rilevanti e più colti.[12]
Con la caduta dell'Impero romano e la formazione dei regni romano-barbarici, si verificò una sclerotizzazione del latino scritto (che diventò lingua amministrativa e scolastica), mentre il latino parlato si fuse sempre più intimamente con i dialetti dei popoli latinizzati, dando vita alle lingue neolatine, tra cui l'italiano.[13]
Gli storici della lingua italiana etichettano le parlate che si svilupparono in questo modo in Italia durante il Medioevo come "volgari italiani", al plurale, e non ancora come "lingua italiana". Le testimonianze disponibili mostrano infatti marcate differenze tra le parlate delle diverse zone, mentre mancava un comune modello volgare di riferimento.[senza fonte]
Il primo documento tradizionalmente riconosciuto di uso di un volgare italiano è un placito notarile, conservato nell'abbazia di Montecassino, proveniente dal Principato di Capua e risalente al 960: è il Placito cassinese (detto anche Placito di Capua o "Placito capuano"), che in sostanza è una testimonianza giurata di un abitante circa una lite sui confini di proprietà tra il monastero benedettino di Capua afferente ai Benedettini dell'abbazia di Montecassino e un piccolo feudo vicino, il quale aveva ingiustamente occupato una parte del territorio dell'abbazia: «Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.» ("So [dichiaro] che quelle terre nei confini qui contenuti (qui riportati) per trent'anni sono state possedute dall'ordine benedettino").[11] È soltanto una frase, che tuttavia per svariati motivi può essere considerata ormai "volgare" e non più schiettamente latina: i casi (salvo il genitivo Sancti Benedicti, che riprende la dizione del latino ecclesiastico) sono scomparsi, sono presenti la congiunzione ko ("che") e il dimostrativo kelle ("quelle"), morfologicamente il verbo sao (dal latino sapio) è prossimo alla forma italiana, ecc. Questo documento è seguito a brevissima distanza da altri placiti provenienti dalla stessa area geografico-linguistica, come il Placito di Sessa Aurunca e il Placito di Teano.[senza fonte]
Studi recenti tendono ad individuare in una breve Iscrizione della catacomba di Commodilla a Roma su un affresco del secolo che ritrae San Felice e San Adàutto, la prima frase in lingua italiana; la piccola scritta, databile agli anni 800 850, recita:[14]
«NON / DICE / RE IL / LE SE / CRITA / ABOCE»
«Non dire le cose segrete a voce alta»
Durante l'alto e tardo Medioevo, l'Italia era un crocevia di rotte commerciali, grazie alla presenza delle influenti repubbliche marinare come Venezia, Genova, Pisa e Amalfi. Gli scambi mercantili, soprattutto a partire dal IX secolo, portarono a contatti continui tra mercanti italiani e popolazioni di lingua straniera, contribuendo alla diffusione di termini stranieri nei volgari italiani. Le parole legate alla marineria, al commercio, alle transazioni economiche e alle attività portuali entrarono a far parte del lessico quotidiano, influenzando notevolmente la lingua parlata.[15]
Uno dei primi casi di diffusione sovraregionale della lingua fu la poesia della Scuola siciliana, scritta in siciliano "illustre" perché arricchito da francesismi, provenzalismi e latinismi,[16] da numerosi poeti (non tutti siciliani) attivi prima della metà del Duecento nell'ambiente della corte imperiale. Alcuni tratti linguistici con questa origine sarebbero stati adottati anche dagli scrittori toscani delle generazioni successive e si mantennero per secoli o fino ad ora nella lingua poetica (e non) italiana: dalle forme monottongate come core e loco ai condizionali in -ia (es. saria per sarebbe) ai suffissi in uso in Sicilia derivati dal provenzale come -anza (es. alligranza per allegria, membranza, usanza, adunanza) o -ura (es. freddura, chiarura, verdura) e altri ancora[17][18][19] o vocaboli come il verbo sembrare per parere che per Dante era "parola dotta" (di origine provenzale, giunta anch'essa all'italiano attraverso la lirica siciliana).[20] La Scuola siciliana insegna una grande produttività dell'uso dei già menzionati suffissi e dei prefissi (questi ultimi per lo più derivanti dal latino) come dis-: disfidarsi, s-: spiacere, mis-: miscredere, misfare e tanti altri ancora. Erano già presenti abbreviazioni come dir (dire) o amor (amore) e altri latinismi; ad esempio la parola amuri, in siciliano, si alternava con amore (latinismo).[16] Il contributo della scuola siciliana fu notevole. A proposito Dante scrive in De vulgari eloquentia:[21]
«quod quicquid poetantur Ytali sicilianum vocatur»
«tutto quanto gli Italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano»
(Dante Alighieri, De vulgari eloquentia I, XII, 2)
«... del bel paese là dove 'l sì suona»
(Dante Alighieri, Inferno, canto XXXIII, v. 80)
L'assetto dell'italiano discende, in sostanza, da quello del volgare fiorentino trecentesco. Il ruolo di questo volgare nella formazione dell'italiano è tanto importante che in alcuni casi gli storici della lingua descrivono il fiorentino trecentesco già come "italiano antico" e non come "volgare fiorentino".[Nota 3]
Tra i numerosi tratti che l'italiano riprende dal fiorentino trecentesco, e che erano invece estranei a quasi tutti gli altri volgari italiani, si possono citare per esempio, a livello fonetico, cinque elementi discriminanti individuati da Arrigo Castellani:[22]
Tuttavia, già dalla fine del Trecento la lingua parlata a Firenze si distaccò da questo modello, che successivamente sarebbe stato codificato da letterati non fiorentini, a cominciare dal veneziano Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525), e usato come lingua comune per la scrittura in tutta Italia a partire dalla seconda metà del Cinquecento: nelle parole di Bruno Migliorini, «Se leggiamo una pagina di prosa, anche d'arte, degli ultimi anni del Quattrocento o dei primi del Cinquecento, ci è di solito abbastanza facile dire da quale regione proviene, mentre per un testo della fine del Cinquecento la cosa è assai malagevole».[23]
A partire dal Cinquecento, le espressioni "toscano" e "italiano" sarebbero state utilizzate come sinonimi[24].
Al Seicento appartiene il primo trattato dedicato non ai volgari italiani o a uno o più di tali volgari, ma alla lingua italiana in quanto tale: Delle osservazioni della lingua italiana di Marcantonio Mambelli, detto il Cinonio.
L'italiano ricoperse anche in Corsica (oggi in Francia, ma prima del 1768 possedimento genovese) un ruolo di prestigio, in qualità di lingua di cultura, religione e per la comunicazione ufficiale, fino alla sua graduale sostituzione col francese avvenuta ufficialmente nel 1859[25][26]; in Sardegna, ove il ruolo di lingua tetto era ormai da tempo ricoperto invece dallo spagnolo, sarebbe occorso nel tardo Settecento un processo d'intensa italianizzazione a partire dalla gestione sabauda, interessata ad allacciarne i rapporti col Piemonte e, così facendo, la sfera culturale italiana[27][28][29].
L'italiano rimase per lungo tempo soprattutto la lingua scritta dei letterati che, per le loro opere, avevano scelto di utilizzare il modello letterario del Petrarca. Fu Pietro Bembo, nel Cinquecento, a proporre agli altri letterati italiani, come lingua comune letteraria, il fiorentino del Trecento del Petrarca. La sua proposta rientrava nella cosiddetta "questione della lingua", ovvero la discussione allora in corso su quale lingua comune si potesse adottare in Italia per la letteratura, e risultò quella maggiormente accolta dagli altri letterati italiani.[30] La discussione allora in corso, in cui avrebbe infine avuto la meglio la posizione del Bembo, non verteva su quale lingua comune potessero adottare gli italiani, bensì in quale lingua comune si potesse scrivere la prosa e la letteratura.
Nelle ricostruzioni dei linguisti, fino alla seconda metà dell'Ottocento solo fasce molto ridotte della popolazione italiana erano in grado di esprimersi in italiano. Come riportato da Sergio Salvi, «Nel 1806, Alessandro Manzoni, in una lettera a Fauriel, confidava che l'italiano "può dirsi quasi come lingua morta"».[31] Più tardi, nel 1861, secondo la stima di Tullio De Mauro,[32] era in grado di parlare in italiano solo il 2,5% della popolazione italiana. Nella valutazione di Arrigo Castellani, alla stessa data la percentuale era invece del 10%.[33]
Il dibattito risorgimentale sull'esigenza di adottare una lingua comune per l'Italia, che proprio allora stava nascendo come nazione, vide il coinvolgimento di varie personalità come Carlo Cattaneo, Alessandro Manzoni, Niccolò Tommaseo e Francesco De Sanctis.[34]
Si deve in particolare al Manzoni l'aver elevato il fiorentino a modello nazionale linguistico, con la pubblicazione nel 1842 de I promessi sposi, che sarebbe diventato il testo di riferimento della nuova prosa italiana.[34] La sua decisione di donare una lingua comune alla nuova patria, da lui riassunta nel celebre proposito di «sciacquare i panni in Arno»,[Nota 4] fu il principale contributo di Manzoni alla causa del Risorgimento.[35]
Fra le sue proposte in seno al dibattito sull'unificazione politica e sociale dell'Italia, egli sosteneva inoltre che il vocabolario fosse lo strumento più idoneo per rendere accessibile a tutti il fiorentino a livello nazionale.[36]
«Uno poi de’ mezzi più efficaci e d’un effetto più generale, particolarmente nelle nostre circostanze, per propagare una lingua, è, come tutti sanno, un vocabolario. E, secondo i princìpi e i fatti qui esposti, il vocabolario a proposito per l’Italia non potrebbe esser altro che quello del linguaggio fiorentino vivente.»
(Alessandro Manzoni, Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, 1868)
In seguito, fattori storici quali l'unificazione politica, la mobilitazione e il mescolamento degli uomini nelle truppe durante la prima guerra mondiale, la diffusione delle trasmissioni radiofoniche hanno contribuito a una diffusione graduale dell'italiano. Nella seconda metà del Novecento in particolare, la diffusione della lingua è stata accelerata anche grazie al contributo della televisione e alle migrazioni interne dal Sud al Nord.[37] Fondamentale è stato il divieto di utilizzare con funzione pubblica (scuola, atti pubblici, ecc.) i parlari italiani e le lingue delle minoranze linguistiche; gli insegnanti furono (e lo sono ancora) lo strumento attraverso cui tali strumenti di espressione furono minorizzati, essendo considerati "dialetti" in posizione subordinata, quando non "mala erba" da estirpare.[38] Solo con la Costituzione repubblicana del 1947 è stata riconosciuta in Italia la presenza di altre lingue oltre la lingua ufficiale (italiano) e vietata la discriminazione su basi linguistiche (art. 3, 6 e 21 della Costituzione italiana).[39]
La lingua italiana usa l'alfabeto italiano costituito da 21 lettere; al quale si aggiungono 5 lettere, tradizionalmente definite straniere, ⟨j⟩, ⟨k⟩, ⟨w⟩, ⟨x⟩, ⟨y⟩, con cui forma l'alfabeto latino. X e J erano lettere utilizzate nell'italiano antico soprattutto nei toponimi (Jesi, Jesolo) e in alcuni cognomi come Lo Jacono e Bixio, o come varianti grafiche di scrittura (ad es. in Pirandello gioja invece di gioia). Esistono accenti grafici sulle vocali: in particolare quello acuto (´) solo sulla e e raramente sulla o (una grafia ricercata li esigerebbe anche su i e u dal momento che sono sempre "vocali chiuse") e quello grave (`) su tutte le altre. Il circonflesso (^) serve per indicare la contrazione di due vocali, in particolare due /i/. Si è soliti indicarlo soprattutto nei (pochi) casi in cui vi possa essere ambiguità di tipo omografico. Per esempio la parola "geni" può riferirsi sia a delle menti brillanti (al singolare: "genio") sia ai nostri caratteri ereditari (al singolare: "gene"). Scritta "genî" non può che riferirsi al primo significato.
L'accento grafico è obbligatorio sulle parole tronche (o ossitone o meglio ancora "ultimali"), che hanno cioè l'accento sull'ultima sillaba e finiscono per vocale. Altrove l'accento grafico è facoltativo, ma utile per distinguere parole altrimenti omografe (àncora - ancóra).
Il lessico della lingua italiana è descritto da numerosi dizionari, impostati secondo criteri moderni, che includono circa 160000 parole di uso consolidato. Alcuni dizionari includono fino a 800000 lemmi (Vocabolario Treccani); d'altro canto, secondo gli studi di Tullio De Mauro, la lingua di comunicazione quotidiana è fondata su una base di circa 7000 parole. Il Corpus lip (Lista Italiano Parlato) contiene un elenco delle parole che sono comunemente utilizzate nella comunicazione verbale.
La lunghezza media delle parole di un testo in italiano è di circa 5,4 lettere.[senza fonte]
Nel corso dei secoli, il lessico dell'italiano ha accolto numerosi prestiti e calchi linguistici da altre lingue e culture.
Alcune parole dell'italiano derivano da lingue parlate in Italia prima dell'avvento del latino. Hanno questa origine, per esempio, persona (proveniente dall'etrusco) e bufalo (proveniente dall'osco-umbro). Attraverso la mediazione del latino, queste parole sono entrate nell'italiano e in altre lingue e dialetti d'Italia.
Il lessico italiano deriva in massima parte dal latino volgare. Il lessico con questa origine non è quindi considerato prestito; in alcuni casi, però, parole modellate su parole del latino letterario sono state reintrodotte nei volgari italiani prima e nell'italiano poi, fino all'età contemporanea. Questo a volte ha creato coppie di parole con la stessa origine ma significato diverso. Dal latino "vitium" hanno origine per esempio sia la parola vezzo, per tradizione ininterrotta, sia la parola vizio, reintrodotta sulla base dell'uso latino classico. O ancora, dal latino "causa" hanno avuto origine sia "cosa" per tradizione ininterrotta che l'omografa "causa", prestito derivante dal latino letterario. Altri latinismi sono stati reintrodotti anche attraverso la mediazione di altre lingue: per esempio le parole sponsor e media, venute dall'inglese, e la parola fazzoletto, che deriva dal latino fascia attraverso il diminutivo greco medievale faskiolon (φάσκιολον).
Dal greco sono entrati in italiano molti termini tecnici scientifici (come aritmia, pneumologia, nosocomio), politici e religiosi, questi ultimi dovuti alla diffusione della Vulgata (la traduzione della Bibbia dalla versione in greco detta Septuaginta, da cui parabola, angelo, chiesa, martire ecc.); dai bizantini deriva lessico marinaresco (galea, gondola, molo, argano) o botanico (basilico, bambagia), con alcune altre parole (zio, tapino).
Dall'ebraico derivano parole entrate nell'ambito cristiano come satana, osanna, alleluia, pasqua, giubileo o altre come sabato, manna, cabala, sacco.
Numeroso il lessico che proviene da parole arabe, tra cui vegetali (spinaci, carrubo), animali o caratteristiche d'essi (cammello, fennec, ubara, ubèro), alimentari (sciroppo, sorbetto, zucchero, caffè, albicocca, zibibbo), suppellettili (materasso, zerbino), o prodotti (coffa, ghirba, probabilmente valigia), termini commerciali, amministrativi e giuridici (dogana, fondaco, magazzino, tariffa, fattura, sultano, califfo, sceicco, ammiraglio, alfiere, harem, assassino), ludici (azzardo), scientifici (alchimia, alambicco, elisir, calibro, zenit, nadir, azimut), matematici (algebra, algoritmo, cifra, zero), altri aggettivi o sostantivi (meschino, tarsia, risma, intarsiato) e, più recentemente, termini come intifada, burqa o kefiah.
Dal persiano derivano parole come arancia, limone, asparago, candito, scacchi (da cui anche il matto di "scacco matto"), mago, scià, satrapo, divano, pasdaran.
Negli ultimi decenni sono diventate d'uso comune alcune parole provenienti dal sanscrito. Fra le più usate: guru, maharaja, karma, mahatma, mantra, paṇḍit.
Dal francese medievale o dal provenzale provengono moltissimi termini, ad esempio: burro, cugino, giallo, giorno, mangiare, saggio, savio, cavaliere, gonfalone, usbergo, sparviere, levriere, dama, messere, scudiero, lignaggio, liuto, viola, gioiello...; oltre il Medioevo i prestiti dall'area francese si riducono, per riprendere in occasione dell'occupazione della Lombardia nel XV secolo (maresciallo, batteria, carabina, ma anche bignè, besciamella, ragù).
In epoca illuministica e quindi con Napoleone si insedieranno ad esempio rivoluzione, giacobino, complotto, fanatico, ghigliottina, terrorismo.
Nell'Ottocento entrano ancora parole come ristorante, casseruola, maionese, menù, paté, рurè, crêpe, omelette, croissant (cucina); boutique, décolleté, plissé, griffe, prêt-à-porter, fuseaux (moda); boulevard, toilette, sarcasmo, cinema, avanspettacolo, soubrette, boxeur (anglismo passato al francese), chassis. Il termine informatica entra rapidamente dopo la nascita del neologismo informatique nel 1962.
Numerosissimi sono in italiano i termini di uso comune che hanno un'origine germanica, soprattutto longobarda o franca, in minor misura gotica. Per esempio: aia, albergo, banca, banda, elmo, garantire, gramo, grinfia, guardare, guardia, guarnire, guercio, guerra, guidare, guitto, guizzo, lanca, landa, lenza, risparmio, sapone, sgraffignare, slitta, spola, stambecco, stamberga, schiena, snello, stanga, trincare, vanga, zanna. Alcuni prestiti sono scandinavi, come renna e sci.
I prestiti dall'inglese sono relativamente recenti, indicativamente dalla fine del Novecento, ma considerevoli. Secondo Tullio De Mauro gli anglismi entrati nell'italiano si attestano attorno all'8% del lessico complessivo.
Dopo la seconda guerra mondiale, si insediano stabilmente termini relativi allo sviluppo tecnologico ed economico; alcuni sono prestiti di necessità, ovvero non sempre traducibili con lemmi già esistenti: kit, jeans, partner, puzzle, scout, punk, rock; altri, pur avendo corrispondente in italiano, sono entrati nell'uso comune anche come sinonimi: sono quelli propri del lessico finanziario come budget (bilancio, esso stesso un prestito dal francese), marketing (commercializzazione; mercatistica), meeting (riunione), business (affari); altri ancora del lessico informatico come chat, chattare, computer, formattare, hardware, software, mouse, blog (da web-log); altri, infine, sono del lessico sportivo come goal (rete; punto), corner (calcio d'angolo), cross (traversone), assist (rifinitura), baseball (palla a base), basket (contrazione derivata da basketball, ovvero pallacanestro).
Tramite lo spagnolo, prima e durante l'occupazione asburgica, sono giunti nell'italiano termini esotici quali amaca, ananas, brio, cacao, cioccolata (originariamente nahuatl), condor (originariamente quechua), creanza, etichetta, guerriglia, lama (originariamente quechua), lazzarone, mais (originariamente taino), parata, patata (originariamente quechua), nonché parole queste sì castigliane quale posata, puntiglio, sfarzo, sussiego, zaino.
Dal portoghese derivano parole come banana, cocco, mandarino (originariamente cinese), pagoda (originariamente cinese).
Tra questi, molti hanno origine dai nuovi referenti legati alla scoperta dell'America.
Fra le lingue iberiche minoritarie che ebbero una certa influenza sull'italiano, va senz'altro menzionato il catalano, parlato, insieme all'italiano o alle lingue e dialetti locali, in alcune corti medievali: fra il XIII e il XV secolo in Sicilia e, nel corso del XV secolo, a Napoli.
La morfosintassi dell'italiano è conforme al modello delle altre lingue italo-occidentali in generale, possedendo un ricco sistema verbale e configurandosi come lingua SVO. I nomi non possiedono distinzioni di caso. Ci sono due generi (maschile e femminile) e due numeri (singolare e plurale). I nomi, gli aggettivi e gli articoli si flettono e si accordano per entrambe le categorie. Il verbo è coniugato per modo (indicativo, congiuntivo, condizionale, imperativo, infinito, participio e gerundio), tempo (presente, imperfetto, passato remoto, futuro, passato prossimo, trapassato prossimo, futuro anteriore, trapassato remoto), diatesi (attiva, passiva e riflessiva), persona e numero (anche genere nel participio passato); spesso i pronomi soggetto sono omessi, come di consueto anche in altre lingue italo-occidentali, poiché sono espressi dalla coniugazione verbale. A differenza delle lingue romanze occidentali (francese, spagnolo, lingue retoromanze ossia romancio-ladino-friulano, occitano, ecc.) che tipicamente formano il plurale aggiungendo un "s" al singolare maschile, in italiano il plurale si forma modificando la desinenza finale al maschile singolare.[45]
L'italiano è usato da un'ampia maggioranza della popolazione italiana residente in Italia. Inoltre, la lingua è usata da diverse fasce della popolazione in tutte le situazioni comunicative, sia informali (conversazione in famiglia o tra amici) sia formali (discorsi pubblici, atti ufficiali).
Nelle situazioni comunicative informali (e occasionalmente in quelle formali) l'uso dell'italiano si alterna in alcune aree geografiche e in diverse fasce della popolazione con l'uso di un dialetto, di una lingua regionale o di una lingua di minoranza.
Secondo un'indagine ISTAT condotta nel 2006 su un campione di 24.000 famiglie residenti in Italia (corrispondenti a circa 54.000 individui), nella conversazione con estranei il 72,8% dei residenti dichiara di parlare "solo o prevalentemente italiano", mentre il 19% dichiara di parlare "sia italiano che dialetto". Parla invece "solo o prevalentemente dialetto" il 5,4% dei residenti, e "un'altra lingua" l'1,5% (la somma delle quattro voci porta al 98,7%). Almeno il 91,8% dei residenti (somma delle percentuali relative alle prime due scelte) dichiara quindi di essere in grado di parlare italiano.[46] Commentando i dati della stessa indagine, Gaetano Berruto riassume la situazione dicendo che all'inizio del XXI secolo in Italia esiste "una piccola minoranza (di entità difficile da quantificare, forse attorno al 5%, e da cercare prevalentemente fra coloro che sono privi di qualunque titolo di studio), soprattutto nelle generazioni più vecchie e in Italia meridionale, di persone che parlano solo dialetto".[47]
Va ricordato che le "popolazioni autoctone storiche" riconosciute "minoranze linguistiche" con l'art. 2 della legge 482/99 in attuazione art. 6 Cost., sono costituite da circa 3 milioni di cittadini italiani, a cui vanno aggiunti i parlanti i tanti dialetti italiani. Molti di questi dialetti, come testimoniato da Tullio De Mauro, sono ancora vitali e diffusamente parlati, anche se in forma bilingue con l'italiano. Il grande linguista Tullio De Mauro, in una intervista pubblicata nel 2014, infatti affermava che ” chi diagnosticava la morte dei dialetti deve ricredersi [...] regredendo l'uso esclusivo, è andato crescendo quello alternante di italiano e dialetto: nel 1955 era il 18 per cento, oggi è il 44,1 [...] ”.[48] È inoltre noto che per questo importante linguista italiano, il plurilinguismo “italiano + dialetti o una delle tredici lingue di minoranza[49]” gioca un ruolo positivo in quanto “i ragazzi che parlano costantemente e solo italiano hanno punteggi meno brillanti di ragazzi che hanno anche qualche rapporto con la realtà dialettale” [50]
Secondo i dati del Ministero dell'Interno il 95% degli italiani ha come lingua madre l'italiano mentre il 5% rimanente compone le minoranze linguistiche d'Italia (si pensi ad esempio alla popolazione germanofona dell'Alto Adige o slovenofona del Friuli Venezia Giulia).
In base ad un'indagine dell'ISTAT pubblicata nel dicembre 2017, si stima che nel 2015 il 90,4% della popolazione fosse di lingua madre italiana, in diminuzione rispetto al 95,9% rilevato del 2006.[7]
Esistono stime assai discordanti sul numero degli italofoni, definizione che include tutti i locutori di lingua italiana nel mondo, come lingua madre o lingua seconda.
La ONG evangelica Summer Institute of Linguistics, dedita allo studio delle lingue per la diffusione della Bibbia e autrice della pubblicazione Ethnologue, stima che esistano circa 61 milioni di italofoni nel mondo, dei quali 55 milioni in Italia.[51]
L'Eurobarometro, sondaggio statistico periodico condotto dalla Commissione europea, stima invece che l'italiano sia parlato come lingua madre dal 13% dei cittadini dell'Unione (al secondo posto insieme all'inglese e dopo il tedesco), a cui si aggiunge un 3% in grado di parlarlo come seconda lingua, per un totale di 72 milioni di persone nella sola Unione europea. Rilevato nel 2006, il risultato è stato confermato dal rapporto del 2012.[52][53]
La diffusione dell'italiano nella comunicazione informale è avvenuta soprattutto nella seconda metà del Novecento, e l'uso effettivo è quindi strettamente collegato all'età dei parlanti.
Secondo un'indagine ISTAT condotta nel 2006 le persone che parlavano "solo o prevalentemente italiano" sono per esempio state stimate al 72,8 % con gli estranei e al 45,5 % in famiglia, con questa distribuzione nelle fasce d'età estreme:[54]
L'uso dell'italiano è generalizzato nei mezzi di comunicazione di massa diffusi in Italia (giornali, radio, cinema, televisione). In Italia i film stranieri sono di regola presentati con un doppiaggio in lingua italiana e le trasmissioni radiofoniche e televisive in lingua diversa dall'italiano sono molto rare.
L'italiano non è una lingua del tutto uniforme. Il linguista Gaetano Berruto ha distinto per esempio nove varietà di italiano:[55]
L'italiano è lingua ufficiale in Italia (benché alcuni territori siano ufficialmente bilingui), nella Città del Vaticano (sebbene la lingua nominalmente ufficiale della Santa Sede sia invece il latino), a San Marino, nel sud della Svizzera (Canton Ticino e frange meridionali dei Grigioni), nella fascia litoranea della Slovenia (accanto allo sloveno) e nella regione istriana della Croazia (accanto al croato). È inoltre la lingua ufficiale dell'Ordine di Malta[56] nonché una delle 4 lingue ufficiali della Confederazione elvetica e una delle 24 lingue ufficiali dell'Unione europea.
In passato, l'italiano è stato lingua ufficiale (o coufficiale), per periodi diversi, anche in altre aree geografiche: in Corsica fino al 1859, nelle Isole Ionie fino al 1864, a Nizza fino al 1870, nel Principato di Monaco fino al 1919, a Malta fino al 1934. Durante la seconda guerra mondiale fu per breve tempo lingua ufficiale di territori annessi come le province di Lubiana, Spalato e Cattaro; nel corso dello stesso conflitto, o immediatamente dopo, perse inoltre lo stato di ufficialità nei territori sloveni del Goriziano e del Carso, nell'isola di Cherso e nelle allora province di Fiume e Zara (Croazia), in Albania, nel Dodecaneso, nonché in Libia, Etiopia ed Eritrea. Rimase invece lingua ufficiale in Somalia fino al 1963.
La Costituzione della Repubblica Italiana non indica l'italiano come lingua ufficiale. Tuttavia, in Italia l'italiano è considerato lingua ufficiale in quanto lo Statuto di Autonomia della Regione Autonoma Trentino-Alto Adige (DPR n. 670 del 31 agosto 1972), che ha valore di legge costituzionale, dichiara all'art. 99 che « [...] quella italiana [...] è la lingua ufficiale dello Stato». Inoltre la legge ordinaria n. 482 del 15 dicembre 1999 Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche stabilisce all'art. 1 che «la lingua ufficiale della Repubblica è l'italiano».
Una proposta di legge costituzionale approvata dalla Camera il 28 marzo 2007 prevedeva la modifica dell'art. 12 della Costituzione in «L'italiano è la lingua ufficiale della Repubblica nel rispetto delle garanzie previste dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali»: la proposta però non è stata approvata dal Senato e l'art. 12 nella forma in vigore al 31 dicembre 2012 non contiene indicazioni sulla lingua ufficiale.[57]
Secondo uno studio statistico dell'ISTAT pubblicato nel 2017, il 90,4% della popolazione è di lingua madre italiana:[7]
La lingua italiana in Svizzera è una delle quattro lingue ufficiali insieme al tedesco, al francese e al romancio. Secondo i dati del censimento dell'anno 2013, l'italiano è la lingua principale di oltre 600000 persone residenti nella Confederazione (pari all'8,3 % della popolazione), di cui 307268 residenti nel Canton Ticino, dove l'italiano, oltre a essere unica lingua ufficiale, è considerato la lingua principale dall'88,6% della popolazione.[58] Già la prima Costituzione moderna (quella che nel 1848 fa della Svizzera uno Stato federale), assegna all'italiano lo statuto di lingua nazionale. L'articolo 4 della costituzione federale recita appunto: "Le lingue nazionali sono il tedesco, il francese, l'italiano e il romancio".
Il territorio di lingua italiana (la cosiddetta Svizzera italiana) è costituito dal Canton Ticino e dalle quattro valli italofone del Cantone trilingue dei Grigioni (da Est a Ovest, si tratta delle valli Poschiavo, Bregaglia, Mesolcina e Calanca; le altre lingue di questo Cantone nel Sud-Est della Svizzera sono il tedesco e il romancio). L'italiano è considerato lingua principale dal 13,9% della popolazione nel Canton Grigioni.[59] L'italiano è diffuso infine nell'uso per ragioni turistiche nell'alta Engadina. L'unico ex comune svizzero sul versante settentrionale delle Alpi di lingua italiana, Bivio, sta invece subendo un processo di germanizzazione. In questo comune la lingua italiana è ora[quando?] parlata da poco meno del 30% degli abitanti (erano ancora l'80% nel 1860).
Essendo lingua minoritaria, l'italiano in Svizzera gode di protezione e sussidi da parte di Confederazione e cantoni. L'articolo 70 della costituzione federale riguarda la politica linguistica svizzera, parte di esso recita: "Le lingue ufficiali della Confederazione sono il tedesco, il francese e l'italiano... La Confederazione sostiene i provvedimenti dei Cantoni dei Grigioni e del Ticino volti a conservare e promuovere le lingue romancia e italiana".
Il censimento del 2013 ha tracciato una mappa svizzera delle diffusione delle lingue in Svizzera.[60][61] I risultati sono riportati di seguito:
Aree di insediamento della comunità nazionale italiana in Slovenia
Comuni in Croazia dove la comunità italiana supera il 30% dei residenti
Comuni in Croazia dove la comunità italiana rappresenta tra il 5% e il 30% dei residenti
In Slovenia l'italiano è lingua ufficiale (con lo sloveno) nei quattro comuni costieri di Ancarano, Capodistria, Isola d'Istria e Pirano.
L'articolo 64 della Costituzione slovena riconosce diritti particolari alla comunità nazionale autoctona italiana. In particolare, gli italofoni autoctoni sloveni hanno diritto:[Nota 5][62]
«...di istituire organizzazioni, di sviluppare attività economiche, culturali e di ricerca scientifica, nonché attività nel settore della pubblica informazione e dell'editoria....all'educazione e all'istruzione nella propria lingua nonché alla formazione e allo sviluppo di tale educazione e istruzione nella propria lingua....di coltivare i rapporti con la propria nazione madre e con i rispettivi Stati»
(Costituzione della repubblica Slovena, Articolo 64)
Tali diritti sono garantiti costituzionalmente dallo stato sloveno, materialmente e moralmente.[62] Alla comunità nazionale autoctona si aggiungono poi i cittadini italiani residenti in Slovenia: l'unione di queste due componenti costituisce il gruppo etnico degli sloveni italiani. In particolare riferimento al sistema educativo e scolastico è da notare come, in seguito alle leggi del 1996 sulle istituzioni prescolari, sulle scuole elementari e sulle scuole superiori, nelle scuole di madrelingua slovena operanti sul territorio dei comuni bilingui, l'italiano sia insegnata come lingua obbligatoria,[63] così come lo sloveno è insegnamento obbligatorio nelle scuole di madrelingua italiana.
Nella Regione Istriana, in Croazia, l'italiano è lingua ufficiale a livello regionale insieme al croato (parlata dal 7,69% della popolazione secondo il censimento ufficiale del 2001), e a livello comunale a: Buie, Castellier-Santa Domenica, Cittanova, Dignano, Fasana, Grisignana, Lisignano, Montona, Orsera, Parenzo, Pola, Portole, Rovigno, Torre-Abrega, Umago, Valle d'Istria, Verteneglio, Visignano, Visinada. Secondo Ethnologue e Dieta Istriana, i parlanti italiano in Istria sarebbero almeno il 25%.
Al di fuori dell'Istria, l'italiano è lingua coufficiale a livello comunale[64] nella cittadina di Cherso (situata nell'omonima isola della Regione litoraneo-montana). Anche a Fiume, Zara e in altre città costiere della Dalmazia l'italiano è parlato o compreso da una parte (sia pur minoritaria) della popolazione, ma in tali aree gli italofoni non godono di tutele specifiche.
Nella Repubblica di San Marino è lingua nazionale dello Stato.
L'italiano è la lingua ufficiale. Come tale, è usato nelle occasioni formali e solitamente negli eventi internazionali o dove gli italiani siano in maggioranza. Nelle occasioni soprattutto informali che avvengono in ambiti nazionali, i partecipanti usano la loro lingua nazionale (in Francia il francese e così via). In generale, le lingue più usate sono l'inglese, l'italiano, il francese, il tedesco e lo spagnolo, per esempio il sito internazionale è in queste lingue, elencate in questo ordine.[65]
Le stime di Ethnologue (2020) valutano che al mondo vi siano 68 milioni di persone in grado di parlare italiano in 34 Paesi diversi, facendola risultare come la 27ª lingua parlata in base al numero di parlanti totali (64,6 milioni circa sono parlanti madrelingua L1). Alcuni milioni di parlanti sono residenti all'estero. Le stime disponibili tuttavia hanno un certo grado di arbitrarietà per quanto riguarda la definizione (più o meno rigorosa) del «parlare italiano».
Nel 2011, è inoltre fra le cinque lingue più studiate al mondo (come lingua non madre).[70]
In alcuni Paesi l'italiano, pur non avendo un riconoscimento ufficiale, ha un uso relativamente diffuso, anche se privo di riconoscimento giuridico. I Paesi in cui l'italiano è più parlato in rapporto alla popolazione, sono Malta (84%) e Albania (73%):[71] in termini assoluti i Paesi in cui l'italiano è maggiormente parlato sono Albania (1600000 abitanti) e Argentina (1500000 abitanti, ma stime non ufficiali indicano addirittura più di 5000000 di italofoni[senza fonte]). Seguono Canada, Francia e USA, con 1000000 di italofoni ciascuno.
In base ai dati dell'Anagrafe degli italiani residenti all'estero (AIRE) pubblicati dal Ministero dell'interno,[77] aggiornato al 2012, risultano presenti forti comunità di cittadini italiani residenti all'estero; queste cifre indicano solo i cittadini italiani residenti e non tutti gli italofoni presenti nei diversi Paesi:
In totale, i cittadini italiani all'estero sono 4341156; in particolare, 2365170 in Europa, 400214 in Nord e Centro America, 1338172 in Sud America, 56366 in Africa, 45006 in Asia e 136228 in Oceania.
Gli iscritti all'AIRE «provengono da residenze anagrafiche in Italia ed erano quindi precedentemente iscritti anagraficamente presso comuni italiani»,[78] e sono quindi spesso in grado di parlare italiano. Tuttavia, alcuni di loro "non sono mai stati scolarizzati in italiano né hanno mai parlato la [...] lingua in contesti formali e non, non avendo neanche appreso l'italiano in famiglia".[78] Per questo motivo Barbara Turchetta ritiene che "sebbene il numero di cittadini italiani residenti all'estero si avvicini a quello degli italofoni all'estero, esso è certamente in eccesso rispetto a quest'ultimo".[78]
Le stime sul numero di discendenti di emigrati italiani all'estero arrivano fino a un massimo di 80 milioni di persone.[79] Tuttavia, «degli oltre 25000000 Italiani emigrati tra il 1876 e il 1976 appena 7000000 circa possono considerarsi espatriati in maniera definitiva; il resto si limitò a un soggiorno variabilmente lungo all'estero prima di un ritorno definitivo in patria».[80]
Nelle comunità stabili di italiani all'estero la lingua nazionale è comunque usata relativamente di rado. Nel primo rapporto organico sulla diffusione dell'italiano nel mondo, la storia dell'uso della lingua italiana all'estero è stata in effetti descritta come quella di «un grande naufragio»:[81] tuttavia, i cittadini di altri Paesi che dichiarano di avere come lingua madre l'italiano sono complessivamente stimabili in due o tre milioni di persone.[81]
L'italiano come lingua straniera (LS) è l'italiano insegnato fuori d'Italia ad apprendenti di madrelingua non italiana. Alla fine degli anni settanta, l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana commissionò a Ignazio Baldelli la prima indagine sui motivi che spingevano il pubblico degli apprendenti italiano LS a studiare l'italiano. L'italiano appare studiato soprattutto per due ragioni: il prestigio della cultura italiana o un'ascendenza familiare italiana. Sempre in base all'indagine di Baldelli, furono stimati più di 700 000 apprendenti stranieri, donne per i due terzi: del totale, il 70% è di studenti, nei restanti casi soprattutto di impiegati.[82]
Il 21 e 22 ottobre 2014 si sono svolti a Firenze, su iniziativa del Ministero degli Affari Esteri italiano, i primi «Stati generali della lingua italiana nel mondo», per fare il punto sulla situazione presente e definire strategie future per la diffusione della lingua a livello globale. Il libro bianco L'italiano nel mondo che cambia, realizzato in seguito all'evento, stima in oltre 1 milione gli studenti d'italiano all'estero, maggiormente in Germania (244 000), Australia (203 000) e Stati Uniti (145 000).[83] I successivi Stati generali si sono tenuti il 17 e 18 ottobre 2016, sempre a Firenze.[84][85]
Tra i diversi quotidiani in lingua italiana editi in Paesi dove l'italiano non è lingua ufficiale nazionale, si citano:
Lingua francoprovenzale
Lingua occitana
Lingue gallo-italiche
Lingua veneta
Dialetto sudtirolese
Lingua friulana e lingua ladina
Lingua slovena
Dialetti toscani
Dialetti italiani mediani
Dialetti italiani meridionali
Lingua siciliana
Lingua sarda
Lingua corsa
In Italia pressoché tutti gli idiomi parlati accanto all'italiano, con esclusione delle dodici minoranze linguistiche riconosciute per legge[87], sono generalmente definiti dialetti italiani nonostante che essi non derivino dall'italiano ma, parallelamente a quest'ultimo, risalgono invece ad antiche forme locali della lingua latina volgare.
Esistono dialetti che condividono con l'italiano una forte somiglianza tipologica, la condivisione di tratti fonetici e la mutua intelligibilità; tale è soprattutto il caso dei dialetti toscani, dai quali peraltro l'italiano deriva. Per quanto parlato in Francia, il corso è, da un punto di vista strettamente tipologico, linguisticamente assimilabile a un dialetto toscano e quindi ad una varietà d'italiano. Tuttavia, a causa dell'influenza culturale e politica francese, il governo di Parigi da più di un secolo è determinato a distaccare la cultura e il dialetto corso dalla sfera culturale italiana. Ciò nonostante a livello meramente linguistico il dialetto corso è e rimane sia in Corsica come anche nella Sardegna settentrionale tipologicamente affine all'italiano al pari dei dialetti toscani.[88]
Assieme alle lingue autoctone che si associano all'italiano per prossimità tipologica, vi sono dialetti che discendono dall'impianto dell'italiano standard nelle regioni in cui non era parlato. Tali dialetti si sono sviluppati in seguito alla diffusione massiccia della lingua ufficiale, a partire dall'Ottocento e ancor più dal Novecento. Si tratta di accenti che l'italiano ha assunto presso le comunità in cui è tuttora praticata diglossia con la lingua locale, oppure di più complesse flessioni, che raccolgono elementi residuali lasciati dalla lingua originale di quei luoghi, la cui estinzione va al passo con il processo di deriva linguistica. Solo quest'ultima categoria di accenti e flessioni si può associare allo stereotipo del dialetto come un parlare italiano corrotto; si tratta di una profonda inesattezza quando lo si associa invece a parlate native che semmai sono, al pari di ogni altro idioma romanzo, evoluzioni locali della lingua latina, e non costituiscono quindi la "corruzione" di una variante standard corrente. La summenzionata variazione dell'italiano viene distinta socialmente (italiano popolare) e geograficamente (italiani regionali).[89]
Si tratta quindi di chiamare dialetti italiani nel senso di "varianti dell'italiano" solo le variazioni del tipo linguistico italiano, in base alle collocazioni geografiche e sociali, e le parlate native prossime all'italiano standard. Sul territorio italiano quindi sono stati individuati altri tipi linguistici oltre al tipo italiano, i quali sono composti a loro volta da dialetti, che tuttavia non sono dialetti dell'italiano in senso stretto (cioè varianti), poiché derivano direttamente dal latino e hanno sviluppato l'autonomia del loro tipo linguistico, a prescindere dalla più o meno marcata coesione interna. Ciascun tipo autonomo rispetto all'italiano e rispetto agli altri tipi è considerato dai linguisti una lingua romanza a tutti gli effetti, ed è separata dal dominio dell'italiano.[90]
Per quanto riguarda il riconoscimento, le lingue non-romanze sono facilmente distinguibili, mentre le altre lo sono meno poiché generalmente si trovano in continuum linguistico con il sistema delle lingue romanze. Le lingue romanze riconosciute dallo stato italiano nella loro autonomia sono sardo, catalano, francese, occitano, francoprovenzale, friulano e ladino. Queste vengono chiamate lingue minoritarie ai sensi della legge 482/99,[91] perché si considera che facciano riferimento a modelli romanzi esterni allo Stato italiano (come francese, catalano, occitano e francoprovenzale), o per altre ragioni spesso dibattute (storiche, autonomistiche, di assenza del continuum, ecc: sardo, friulano e ladino).[92]
Le altre lingue romanze non sono riconosciute dallo Stato, e ne manca quindi una classificazione ufficiale sul piano politico. I linguisti tendono ad identificarne 5 gruppi oltre al sistema dei dialetti toscani (quest'ultimi pienamente riferibili all'italiano):
Il motivo per cui queste lingue non sono riconosciute, sebbene non siano assimilabili all'italiano, è dibattuto.
La lingua italiana è priva di organismi ufficiali di normazione. Nonostante vi siano numerose istituzioni dedicate al suo studio e alla sua promozione, nessuna di queste è ufficialmente deputata all'elaborazione attiva di regole linguistiche, per esempio una grammatica normativa, sul modello della Real Academia Española, dell'Académie française, delle accademie portoghesi (lusitana e brasiliana) o altre. Non vi sono nemmeno organismi linguistici semi-ufficiali, sul modello svedese.[93] A differenza di questi e altri Paesi, inoltre, non si trovano riferimenti alla lingua italiana nei principi fondamentali della Costituzione nazionale[94] della Repubblica italiana: l'unico riferimento esplicito in una norma costituzionale è presente nell'articolo 99 dello statuto speciale del Trentino-Alto Adige (ex DPR n. 670 del 31 agosto 1972), a cui si aggiungono riferimenti normativi di fonti subordinate (codici di procedura civile e penale e articolo 1 della Legge n. 482 del 15 dicembre 1999).[95]
L'Accademia della Crusca si propone lo scopo, espresso nell'articolo 1 del suo statuto, di "sostenere la lingua italiana, nel suo valore storico di fondamento dell’identità nazionale, e di promuoverne lo studio e la conoscenza in Italia e all’estero".[96] È inoltre membro fondatore della Federazione Europea delle Istituzioni Linguistiche Nazionali (EFNIL).
Come evidenziato nello statuto, l'accademia si occupa di promuovere lo studio della lingua italiana a fini storico-linguistici, lessicografici ed etimologici. L'attività scientifica dell'Accademia si svolge in tre campi principali:
L'Opera del Vocabolario Italiano è l'istituto del CNR che ha il compito di elaborare il Vocabolario Storico Italiano. È membro fondatore della Federazione Europea delle Istituzioni Linguistiche Nazionali (EFNIL).[98]
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