Nato nel 1919 a Seul, mostra fin dai primi anni di studio una sensibilità artistica, dedicandosi al teatro e curando la messa in scena di testi di Ibsen e di Cechov. Sarà però l'incontro con uno sceneggiatore durante la Guerra di Corea a cambiare il suo destino: nel 1955 dirige il suo primo film, The Box of Death, e decide di dedicarsi completamente al cinema. In questo primo periodo, fortemente colpito dalle condizioni di vita dei suoi compatrioti durante la guerra e molto influenzato dal neorealismo italiano, dirige film di forte impegno sociale. Negli anni '60 tre nuovi film (fra i quali si segnala The Housemaid) segnano una svolta decisiva nella sua carriera: abbandona la realtà sociale per dedicarsi a un'indagine degli istinti umani più segreti. Si conquisterà così un posto del tutto particolare all'interno dell'industria cinematografica coreana: considerato un anticonformista, verrà isolato e i suoi film subiranno una forte censura. È morto nel febbraio del 1998, proprio alla vigilia dell'omaggio che il Festival di Berlino gli avrebbe dedicato.
Kim Ki-young non ha mai smesso di esplorare temi come la sessualità, il desiderio e la morte, e la sua opera resta spiazzante tanto dal punto di vista formale che tematico: anziché intrighi fortemente strutturati, sceglie sviluppi narrativi deboli che si sviluppano per sequenze antinomiche, dando corpo film dopo film a un cinema di contraddizioni e di deviazioni e sviluppa un'estetica dell'eccesso proprio in un'epoca in cui la società coreana vive una forte crisi d'identità. Il suo gusto per il grottesco, la sua ossessione per la morte, la necrofilia e la descrizione delle frustrazioni sessuali maschili rimangono per lui un modo per ritrarre l'opposizione fra l'antico e il moderno, fra i poveri e i benestanti: in quest'ottica la cosiddetta "trilogia delle cameriere" deve essere considerata come un'esemplare allegoria dei conflitti sociali della Corea negli anni '60.