Donna Prassede

«Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene: mestiere certamente il più degno che l'uomo possa esercitare; ma che purtroppo può anche guastare, come tutti gli altri.»

Donna Prassede
Lucia e la madre Agnese al cospetto di Donna Prassede, dall'edizione quarantana de I promessi sposi
UniversoI promessi sposi
AutoreAlessandro Manzoni
1ª app. inI promessi sposi cap.xxv
Ultima app. inI promessi sposi xxv
Caratteristiche immaginarie
Specieumano
SessoFemmina
Etniaitaliano

Donna Prassede è un personaggio immaginario presente ne I promessi sposi, romanzo di Alessandro Manzoni.

Biografia del personaggio

Compare nella seconda parte della vicenda, specialmente nei capitoli XXV e XXVII; tenta di aiutare Lucia, protagonista del romanzo insieme al promesso sposo Renzo, a superare il trauma della prigionia da lei patita presso il castello dell'Innominato. Donna Prassede è un personaggio esemplarmente bigotto, che si intromette negli affari di tutti e lo dimostra con il comportamento di protezione che assume con le sue figlie. Si convince che Renzo sia un poco di buono per via degli ordini di cattura che lo riguardano, ed è quindi risoluta a far sì che Lucia lo dimentichi offendendo la persona di costui: questo nominare Renzo in continuazione non aiuta Lucia, la quale vorrebbe provare a dimenticare Renzo avendo fatto voto di castità nel castello dell'Innominato:

«Però, se il non pensare a lui era impresa disperata, a pensarci meno, e meno intensamente che il cuore avrebbe voluto, Lucia ci riusciva fino a un certo segno: ci sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo. Ma c'era donna Prassede, la quale, tutta impegnata dal canto suo a levarle dall'animo colui, non aveva trovato miglior espediente che di parlargliene spesso.»

Lucia dimora a casa di donna Prassede durante tutto l'inverno e la primavera del 1630, per poi spostarsi nel lazzaretto. Donna Prassede è sposata con don Ferrante, uomo di cultura che Manzoni descrive come il perfetto erudito seicentesco, completamente assorbito dallo studio dei suoi libri ma tutt'altro che aggiornato. Da don Ferrante ha avuto 5 figlie; 2 si sono sposate e 3 sono entrate in convento.

Nel suo desiderio di bene c'è una smania di dominio, ha l'ossessione delle cause e dei princìpi; esercita una pseudo-carità balordamente raziocinante; si cura di detenere il monopolio di tutte le buone azioni. Non crede mai all'innocenza ed ha un'idea meschina della giustizia di Dio.

Esercita su Lucia una vera inquisizione poliziesca, assumendosi il compito di correggere l'opera del Cardinale Federico Borromeo; interpreta alla rovescia la morale cattolica. È una piccola inquisizione prassediana che ha i suoi bravi "metodi sacramentali": sorveglianza, repressione, ma anche persuasione. L'autore prova sdegno e disprezzo per lei (sia pure con la temperanza dell'ironia) e la condanna totalmente.[1]

«Buon per lei [Lucia, N.d.R.], che non era la sola a cui donna Prassede avesse a far del bene; sicché le baruffe non potevano esser così frequenti. Oltre il resto della servitù, tutti cervelli che avevan bisogno, più o meno, d'esser raddrizzati e guidati; oltre tutte l'altre occasioni di prestar lo stesso ufizio, per buon cuore, a molti con cui non era obbligata a niente: occasioni che cercava, se non s'offrivan da sé; aveva anche cinque figlie; nessuna in casa, ma che le davan più da pensare, che se ci fossero state. Tre eran monache, due maritate; e donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere: impresa vasta e complicata, e tanto più faticosa, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli, e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano accettare la sua soprintendenza. Era una guerra, anzi cinque guerre, coperte, gentili, fino a un certo segno, ma vive e senza tregua: era in tutti que' luoghi un'attenzione continua a scansare la sua premura, a chiuder l'adito a' suoi pareri, a eludere le sue richieste, a far che fosse al buio, più che si poteva, d'ogni affare. Non parlo de' contrasti, delle difficoltà che incontrava nel maneggio d'altri affari anche più estranei: si sa che agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo per forza.»

Alla fine del romanzo, donna Prassede muore contagiata dalla peste. Celebre, a questo proposito, il lapidario ritratto-epitaffio che ne fa lo scrittore:

«Di donna Prassede, quando si dice ch’era morta, è detto tutto.»

Note

  1. ^ Marcella Gorra, Mito e realtà del Manzoni, Milano, Gentile, 1945, pp. 49-54.

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