Figlio ultimogenito di Alessandro Riettis, un commerciante ebreo di Zante, e di Elena Laudi, di un'agiata famiglia di Trieste di religione ebraica. Cresciuto in un ambiente cosmopolita, parla sin da giovanissimo il tedesco e il francese, divenne un convinto irredentista[1].
Tra il 1882 e il 1884 è presso il fratello maggiore Riccardo a San Giovanni Valdarno, dove dipinge in stile verista contadini e operai e visita Firenze e la Toscana. Pur non seguendo un regolare percorso formativo in pittura, è influenzato dai pittori triestini della generazione precedente (ritratti di Eugenio Scomparini e di Giuseppe Barison) e dalle tematiche della "pittura di genere che si andava affermando nell'Italia centrale negli stessi anni, secondo il realismo auspicato da Telemaco Signorini. Numerosi schizzi a carboncino e a matita di questi anni manifestano l'interesse per i volti e gli atteggiamenti della gente comune.
Nonostante il parere contrario dello zio Vitale Laudi, suo tutore dopo la morte del padre, sostenuto dalla madre e dalla nonna, nel 1884 si iscrive all'Accademia di Monaco di Baviera, dove frequenta le lezioni di Franz von Defregger e del greco Nikolaus Gysis ed entra in contatto con altri artisti triestini, come Umberto Veruda e Richard Carniel[2]. Conosce anche il pittore Hugo von Habermann e sperimenta varie tecniche, continuando a riempire quaderni di note e riflessioni e di disegni di volti e figure. Pratica inoltre lo sport della scherma.
Nel 1889 ottiene la medaglia d'argento all'Esposizione universale di Parigi e nell'ultimo decennio dell'Ottocento espone a Monaco, al Glaspalast e alla München Secession, ottenendo un buon riscontro di critica[senza fonte]. All'esposizione del 1891 guadagna la medaglia d'oro di II grado con uno Studio di giovinetta. Nel catalogo[senza fonte] risulta essere di Milano, sebbene svolga gran parte della sua attività a Trieste, dove nel 1894 ha uno studio posto nella cupola di Palazzo Carciotti. Utilizza una tecnica mista, che unisce il segno grafico del pastello e quello pittorico della tempera[3].
Secondo lo stesso Rietti il ritratto deve rivelare «una verità segreta, profonda, dell'anima del soggetto»[5]. Contemporaneamente il pittore annota[6]: «La pecca del ritratto sta in questo: che si deve fare anche quando si vorrebbe fare altro, e che deve piacere al padrone e alla serva, e deve piacere subito». Numerosi ritratti sono conservati in collezioni private italiane ed estere.
Nel 1925 espone insieme ad Arturo Mancini presso la Galleria Pesaro di Milano e le opere esposte sono esaminate in un articolo da Raffaello Giolli.[senza fonte]Nei suoi taccuini[senza fonte] rivela le sue perplessità sull'arte contemporanea, di cui avverte il cambiamento senza comprenderlo: le sue preferenze (ancora nel 1932) vanno a Edgar Degas, Eugène Carrière, Max Liebermann. Le commissioni tuttavia non gli mancano da parte della borghesia, che richiede ritratti tradizionali per i propri salotti[8].
Continua a girare da una città all'altra, pur restando fortemente legato a Trieste[9]. Nel 1933 si stabilisce a Trieste presso il Foro Ulpiano e nel 1936 espone ancora presso la galleria "Trieste"[10].
È indignato e amareggiato per le leggi razziali fasciste[11]. Alla morte della moglie, Elena Riva, nel 1940 si sposta da Trieste a Milano che lascia poi per timore dei bombardamenti per rifugiarsi presso la famiglia Gallarati Scotti a Fontaniva, ritrovo di intellettuali antifascisti: il suo appartamento viene distrutto dalle bombe nel 1943.
Sofferente per il diabete, che gli procura dolori al piede, muore a Fontaniva il 6 febbraio[12].
Note
^Annota su una pagina di diario nel 1882[senza fonte]: «Intanto una cosa mi propongo: studiare la storia di Trieste e d'Italia, coscienziosamente, animato dallo spirito di patria, dalla speranza di giovare Trieste in qualche modo; e già sto immaginando, per cominciare, un giornale coraggioso. Si potrebbe renderlo ameno con articoli letterari, perché fosse più facilmente accetto in Italia, e notizie d'ogni genere su Trieste, rendendola meglio nota che non sia ora agli italiani. Gli scritti caldi e violenti dovrebbero essere appoggiati da seri articoli storici».
^Nel diario (21 ottobre 1884) annota[senza fonte]: «Carniel e Veruda, venuti a Monaco per studiare pittura, sono nell'Antikensaal». Antonio Alisi ("Due pittori triestini: Arturo Rietti (1863-1943)", in La porta orientale, 20.1-2, gennaio-febbraio 1950, pp. 43-50; "Due pittori triestini: Umberto Veruda (1868-1904)", in La porta orientale, 20.3-4, marzo-aprile 1950, pp. 85-93) riferisce il loro incontro al ritorno a Trieste di Rietti, nel 1890 e riferisce: «I loro caratteri, la loro costituzione fisica, l'educazione, l'ambiente familiare nel quale erano cresciuti, le loro relazioni sociali, tutto era diverso. Vorrei che non mi si fraintenda se dico che il Veruda usciva dal popolo, mentre Rietti proveniva da quella borghesia benestante che si reputava quasi un'aristocrazia del fiorente emporio triestino».
^In una concisa definizione dello stesso Rietti negli anni quaranta[senza fonte], la sua tecnica viene descritta in questo modo: «L'eleganza del segno rapido e sicuro, ecco la virtuosità».
^Karl Stern, sul “Wiener Extrablatt”[senza fonte], a proposito di un ritratto maschile, esposto, descrive lo stile di Rietti: «Ancora una parola sulla maniera dell'artista di trattare i dettagli, maniera che consiste soltanto nell'accennarli. Qui, per esempio, abbiamo lo splendido ritratto del signor I. E. Il signore porta gli occhiali. Ma lo vedono soltanto quelli che osservano il ritratto da una certa distanza. Da vicino non c'è che una striscia nera, irregolare, appena percettibile, al lato sinistro della radice del naso. Dove sono gli occhiali? Si proiettano unicamente nel cervello dell'osservatore, secondo quanto vuole il suggestivo accenno dell'artista». Il critico Ludwig Hevesi, coglie il rapporto con le sculture[senza fonte] di Paul Troubetzkoy: «L'artista, fin troppo modesto, è da lungo tempo conosciuto dai viennesi, dal tempo di certi pastelli con toni neri, piccanti, nei quali si mescolava una eleganza prettamente italiana e con in più il merito di un carattere assoluto […] si potrebbe chiamarlo un pittore brillante. La sua pittura mi ricordava molto la plastica del russo - milanese Troubetzkoy, ed invero si è saputo che i due artisti sono amici intimi».
^Nel 1925 annota nei suoi taccuini[senza fonte]: «Tutto nel fascismo è di cattivo gusto, il saluto romano, l'inno (giovinezza, giovinezza) la nappina del berretto, l'intera uniforme, il frasario (!), l'arte, se pure può chiamarsi così (con relativa critica entusiastica della Sarfatti), la pretenziosità dell'invadenza, tutto insomma». Il pittore Cesare Sofianopuloriferisce che[senza fonte]: «Egli a Milano esprimeva liberamente le sue liberali opinioni politiche, in Galleria, ad alta voce, e perciò pochi avevano il coraggio di accompagnarsi con lui».
^Leonardo Borgese, in occasione della mostra retrospettiva dedicata a Rietti nel 1948 presso la galleria "Gussoni" di Milano, scrive[senza fonte]: «Maturo e vecchio trovava lavoro negli ambienti aristocratici e industriali; gli ambienti artistici ufficiali erano occupati da altri pittori, che con l'arte di Rietti non avevano assolutamente nulla di comune»; definisce infatti i suoi ritratti come «molto somiglianti; discreti di tono tanto nel colore quanto nella psicologia; non sfacciatamente adulatori e d'altronde non sgradevolmente sinceri. Adatti veramente alla penombra confortevole delle vecchie case patrizie e borghesi […] Tecnicamente trattava il pastello come forse oggi nessuno più sa. Spiritualmente aveva il dono di rendere nobile qualsiasi volto, o almeno di illuminare le parti nobili che ogni pur mediocre viso riserva. Dava una malinconia contenuta e attraente. Con poca polvere colorata ci riusciva benissimo».
^Cesare Sofianopulo riferisce che[senza fonte]: «Incontrando il pittore, negli ultimi tempi, quando lo attirava a Trieste la nostalgia, per qualche settimana, tutt'al più due o tre mesi, ora venendo da Milano, ora da Parigi, ora da Firenze o da Strasburgo, non mai tranquillo, non mai in pace con sé stesso e con gli altri, sempre disturbato dai rumori che gli facevano cambiare alloggio ogni quindici giorni».
^La recensione sul quotidiano triestino[senza fonte]Il Piccolo la definisce la mostra più importante dell'artista nella sua città natale.
^Nei suoi taccuini scrive[senza fonte]: «non gli ebrei, ma il nome “ebreo” si deve abolire», o, in seguito alla lettura di un numero della rivista La difesa della razza: «Avevo sentito dire che dalla Germania erano arrivati dei consiglieri mandati da Hitler al suo amico Mussolini. Ecco i primi effetti», o «Nel “Piccolo” 2 processi per reato di mancata denuncia di appartenere alla razza ebraica (15 giorni di carcere, 100 £ di multa). Dottore tale legge è un reato, un infame reato, non il disobbedire a tali leggi», e ancora, nel 1940: «Io non sono suddito italiano, poiché fortunatamente ho mantenuto la nazionalità di mio padre, greco, ma nato a Trieste e vissuto quasi sempre in Italia, nutrito d'idee italiane e di studi italiani, mi sono sentito italiano finora, ossia fino all'avvento del fascismo».
^Lo stesso giorno il critico Gustavo Bottagli aveva scritto in una lettera[senza fonte]: «Mi duole assai saperla così tribolato, ma sono certo che il vigore della sua fibra vincerà le insidie del male, ed ella potrà presto rimettersi al suo fecondo lavoro. Non passa giorno ch'io non pensi a Lei con gratitudine e ammirazione, ricontemplando il magnifico ritratto che mi restituisce le fattezze, lo sguardo, la vita della mia buona mamma lontana».
Bibliografia
G. Guida, Arturo Rietti, 1946.
Pensieri sull'arte di Arturo Rietti, in “L'Arte”, gennaio-marzo, vol. XXIII, anno LVII, 1958, pp. 45–51.
R. Da Nova, Rietti(s) Arturo, in Österreichisches Biographisches Lexikon 1815 – 1950, IX Band, Wien 1988, pp. 159–160.
M. Lorber, Arturo Rietti, Trieste, Collana d'Arte CRTrieste, 2008.